Critica
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Mostra "Corpi" al Museo Marino Marini - Firenze

Carlo Sisi - 2005

Al suo terzo appuntamento, l'avventura di Controcampo si impone per la costanza e la pertinace affezione rivolte alla pittura di forma, continuando ad indagare senza pregiudizi le manifestazioni dell'arte contemporanea in Toscana coscientemente estranee ai movimenti di tendenza e quindi appartate per una lirica scelta di emarginazione.

Dopo i cieli di Ceccotti e gli alberi di Fallani, i corpi di Gianni Cacciarini fanno ora riflettere su un genere nobilissimo, quello che nella storia della figurazione ha sempre accompagnato le più accese questioni sulla materia e sull'anima delle apparenze naturali, e che oggi - disertato dai più - si manifesta in crudeli performance o nella omologata ostensione della bellezza commerciale. La pittura di Cacciarini restituisce invece sostanza poetica ad un esercizio compositivo che armonizza l'oggettività fotografica e la mediazione della pittura riproponendo, in fondo, la stessa inquieta verità ricercata nei ritratti e nei corpi dagli artisti del XIX secolo ed anche quegli intrecci monumentali che accentuavano il mistero della metafisica novecentesca. Non a caso la scelta di esporre accanto ai ritratti le 'antiche' macchine che da sempre hanno abitato la fantasia di Cacciarini, vuole alludere ad una sotterranea dialettica fra gli organismi 'celibi venerati dalle avanguardie, e le anatomie fissate sulla tela o sulla carta con libera ed appassionata immaginazione: un confronto che riassume le tappe di una carriera artistica ma anche la recente aspirazione di Cacciarini a trasformare in carne viva le creature meccaniche annidate nel suo studio, come strane forme predisposte alla metamorfosi.

I tagli solenni e fragranti operati su corpi giovani e in una luce cangiante, intrisa di colore pur se a volte assoluta nella sua uniformità astraente, segnalano questo transito creativo, che contrappone un moderno naturalismo ad altre, più drammatiche dissezioni anatomiche operate da artisti europei su un versante espressionista o di lancinante precarietà. "... tutti gli artisti sanno che su d'un corpo qualunque le tinte variano e si modificano, peculiarmente nelle ombre, a norma che vengono riflessate dagli oggetti circostanti; perciò se una mano od un torso nudo si pone dappresso ad un panno azzurro, ti darà nelle ombre riflessate un tono freddo e lacchiccio, se il drappo invece avrà del purpureo o del giallo, vedrai quelle ombre rosee ed incarnate assai" si leggeva in celebri pagine di estetica ottocentesca dedicate all'esercizio del nudo e molto attuali per le situazioni che ci restituiscono, alludendo infatti a privatissime avventure estetiche fra le pareti dell'atelier.

Il corpo, dunque, come tramite di sensualità e di affetti, ora esibito nella gloria del ritratto che, restituito alla sua aulica tradizione, ci si offre quasi come un'icona iperreale; ora accarezzato per frammenti, ovvero frasi confuse di un'epopea umana da ricomporre ed interpretare recuperando la lingua perduta della bellezza.

Mostra "Corpi" al Museo Marino Marini - Firenze

Antonio Natali - 2005

Tutti gli artisti recalcitrano di fronte a chi congetturi per la loro espressione l'ascendente d'un maestro, vicino o lontano che sia; anche quando il modello è nobilissimo. L'evocazione di figure esemplari viene recepita, il più delle volte, come uno svilimento del tenore inventivo d'una creazione moderna. E, se questo è vero per gli artisti in genere, tanto più lo è per quelli che si muovono nell'ambito della tradizione. La quale è per solito vissuta alla stregua d'un senso di colpa, o - meglio - d'un peccato d'origine; che loro tentano di riscattare in un lavacro esegetico capace d'attualizzare, almeno filosoficamente, le scelte linguistiche.

Per sentirsi, essi pure, partecipi del più aggiornato ecumenismo formale, son talora disposti perfino a rinnegarli, i loro maestri; salvo poi piangere - come in una profezia - al canto del gallo. E ne piangono, perché appunto su quei modelli disconosciuti, o per pudore anche soltanto taciuti, sanno bene d'essersi formati, in piena coscienza, con cuore sensibile e cultura aggiornata. Sanno insomma che in quei maestri sta la forza del loro ormai originale linguaggio. E però quasi ne sentono l'impaccio, anche perché la critica che gode di maggior credibilità in materia d'arte contemporanea, privilegia (o addirittura unicamente accoglie) quegli eloqui che si spingono nelle terre della sperimentazione e dei concetti. Una critica che dura fatica ad ammettere il valore poetico d'opere informate alla tradizione, anche quando gli esiti sono palesemente alti.

Potrebbe suonare pleonastico questo preambolo, visto il contesto in cui si colloca la rassegna di Gianni Cacciarini; ch'è appunto quello d'una collana di mostre votate alla rilettura d'artefici che non hanno ripudiato la via della figurazione naturalistica. Ma è un preambolo forse inevitabile, dovendo ragionar qui proprio di Gianni; d'un artista, cioè, la cui valentia tecnica - unanimemente, fin dagli esordi, riconosciutagli - proviene per gran parte dal convinto e fervido suo discepolato con Pietro Annigoni, indiscusso caposcuola d'un realismo oltranzista, dai più reputato financo anacronistico (con quanto ne viene, per via ereditaria, a chi n'abbia seguito gl'insegnamenti). E però, qualunque sia l'avviso sull'arte di lui, va detto che una formazione nella sua bottega portava, di sicuro, a esiti professionalmente ineccepibili. Il resto, poi, toccava agli allievi.

Gianni, affezionato com'è alla figura d'Annigoni e pur sempre persuaso delle doti che furono del suo maestro, non ha mai fatto abiura di quell'educazione. Ma sa, non di meno, quanto nei giudizi sulla sua personale espressione abbia pesato quel magistero e quanto fors'anche tuttora pesi, a dispetto d'una sua ormai antica emancipazione.

D'altronde la scelta d'accostarsi ad Annigoni non può essere disgiunta da una consentaneità fra i due, almeno all'epoca di quell'alunnato. Il giovane, poi, per via dei suoi studi alla Facoltà d'Architettura e in virtù d'una passione per l'arte antica, già di suo coltivava meditazioni sulla tradizione figurativa. Si può capire dunque come quell'incontro abbia costituito un capitolo fondamentale nella sua vicenda di pittore. Così come in fondo lo era stato quello con Vairo Mongatti per l'attività d'incisore.

Ma, dalle prove di Gianni in entrambe le tecniche, è dato ben presto capire ciò che dei due maestri era davvero transitato nel seguace. E ci s'avvede di poterne ravvisare le tracce soltanto nella sua perizia da artigiano di tempi passati. Oltre non si va.

Già allora cresce, infatti, nel giovane una poetica nuova. Si sente, ai primi anni Settanta, in quella cartella d'acqueforti che titolò le Viti: brani di natura, ritratti con intenti di vendica riflessione, da cui trapelano i riverberi di un'attenzione nei riguardi della cultura figurativa pop ch'era allignata di là dall'oceano. E di quel nucleo rammento un tralcio su cui s'affigge, d'improvviso ingrandendolo (come fosse appunto un'icona pop), l'occhio di Gianni, in un foglio che vent'anni or sono mi parve (e tuttora lo penso) potesse adeguatamente rappresentare la sua espressione, e insieme la sua disposizione ideologica, nella mostra di carte donate al Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi nel corso del decennio compreso tra il 1974 e il 1984.

Nella medesima stagione, che vide le Viti, altre spie, ancora, denunciavano l'ascendente americano. Nelle affabili e quiete architetture d'oggetti, da lui costruite, palpita il piacere della giustapposizione di sensitive cose domestiche a oggetti metallici siglati da marchi di fabbrica correnti o a piccole scatole di cartone contrassegnate da loghi abusati di tabacchi; dove, però, lo stesso sopravvive - quantunque in presenza di richiami volgari - la memoria di gesti quotidiani, praticati da parenti o da persone amiche che n'hanno fatto uso.

Quello di Gianni non è mai stato un gioco intellettuale teso a ricreare eleganti e sempre nuovi assemblaggi. Nelle sue composizioni d'oggetti pulsa - e per questo men che mai risulta pertinente la corriva etichetta di 'nature morte' - la vena morandiana dell'etica degli affetti. Fin dalle prove più antiche (quelle dove la cultura figurativa del loro artefice svariava dal lenticolare naturalismo di Vermeer e Zurbarn, alla raffinata evidenza di Chardin, per scender giù, fin quasi ai giorni nostri, alla poetica soave dei 'Pittori moderni della realtà') l'interesse di Gianni si concentra sul valore che i sentimenti trasmettono alle cose; animandole, perfino.

Qui sta la ragione della presenza in questa rassegna, ch'è tutta votata all'esperienza dei corpi, di opere in cui figurano soltanto oggetti; macchine, segnatamente. Quadri che al massimo rimontano a una decina d'anni fa; ma informati alla stessa sensibilità dei più antichi dipinti. Si percepisce nella muta presenza di quelle macchine un'esistenza simbiotica con quella umana. Non godono d'una vita autonoma; e però rimangono - nelle ammaccature delle lamiere, nelle abrasioni delle scritte industriali, nelle consunzioni delle vernici - i segni del passaggio di un'umanità familiare. Finché, alla fine, davvero si animano, e vivono. E fra loro, addirittura, un dialogo si scioglie, silente e assorto.

Se n'hanno sentori chiari proprio nei monumentali utensili (effigiati a coppie) che s'è scelto d'esibire in questa mostra. Immoti, come modelli d'accademia, posano su astratte ribalte di colore; e, perspicui si ritagliano su parimenti astratti fondali di vivida cromia. Sostano allineati sotto una luce tenace che s'è fatta fredda; quasi dall'alto piovesse sui protagonisti d'un dramma di ieratica recitazione. Non è più la polverosa luminosità che filtrava dalle garze e, lieve, torniva ceramiche bianche, bottiglie di liquori scozzesi, e cortei di tasti allineati sulle austere gradinate di Underwood nere. Ora piuttosto è zenitale. E le sue subitanee accensioni secondano l'icastica presenza d'oggetti di metalli corruschi; emblemi d'una specie che vive solo pei riflessi dell'animo umano.

Non è raro infatti che Gianni esplicitamente li abbini a figure d'uomo. Lo fa nei ritratti d'amici e committenti. E lo fa con se stesso; come capita nell'autoritratto del 1988, ch'è uno dei due donati agli Uffizi. E riesce arduo darsi ragione degli accostamenti da lui imposti; se siano casuali, o se invece una relazione (magari sotterranea e inconsapevole) ci sia.

Certo è che, soprattutto prima, trapelava la sua predilezione per le cose, sembrando, gli uomini, impacciati e fragili al cospetto delle sembianze robuste che le macchine assumono nelle sue tele. Ventilatori con pale d'acciaio, lampade elioterapiche, scaldabagni di solida struttura, bombole per ramato, esibivano la supremazia che spetta ai nobili archetipi; forti della loro origine risalente all'antichità di un'era industriale, in cui l'oggetto non nasceva per vivere - come oggi - la stagione breve del consumo. In quelle giustapposizioni quasi s'invertivano i ruoli, con l'uomo a farsi metafora del caduco e la macchina ad attestare la durata dei tempi.

Gianni, d'altronde, s'è avvicinato per gradi alla figura umana. Il corpo gli è diventato familiare lentamente, come se i sensi, gli affetti, i grovigli del cuore, le convenzioni sociali, gli fossero d'ostacolo. A lui, che - s'è già detto - mai ha difettato di virtù tecniche, non riusciva in principio agevole l'approccio col nudo. Par d'avvertire, nelle sue prime prove coi corpi, l'imbarazzo di chi è restio ad accettare un coinvolgimento emotivo, che invece gli veniva del tutto naturale nel concepire i suoi riposati paesaggi d'oggetti amati.

Il palpitare di sentimenti vibratili che anima le sue nature morte, pur nelle differenti loro figurazioni lungo il percorso d'una vita, ai corpi era precluso. Precluso quasi programmaticamente; ancorché forse inconsciamente. Inibito da retaggi moralistici che il tempo e l'evolversi dei giorni hanno poi dissolto. Ma è stata liberazione lenta.

I primi frutti d'un riscatto si potranno cogliere nei nudi che furono esposti alla mostra ordinata nelle sale affrescate dei Palazzo comunale di Pistoia nel 1994. Nudi che proprio a quell'anno risalgono, e anzi si datano a così stretto ridosso di quell'evento da avermi allora consigliato un poscritto all'introduzione che n'avevo preparata. In essa ragionavo dell'incapacità dell'uomo - nei quadri di Gianni - di sostenere la commossa poesia sottesa agli oggetti ritratti. Ne registravo l'accesso nel microcosmo del pittore, popolato di cose rubate alla memoria; ma confessavo di percepirne l'estraneità, e comunque una soggezione per soverchia timidezza, al cospetto del piglio altero degli oggetti. E dagli sbilanciati connubi di cose e corpi sortiva la sensazione che il livello alto d'astrazione, cui pervenivano le nature morte quand'erano solitarie, ineluttabilmente s'incrinasse.

Quelle pagine furono scritte nell'estate del 1994. Nell'autunno, nuovi quadri, eroici e monumentali, furono dipinti, e la loro impaginazione finalmente coraggiosa segnò la svolta. Caddero (davvero caddero) i veli che prima s'aggrovigliavano - colorati e lievi - ai nudi; e, al pari di diaframmi retorici, ne celavano le forme.

Quei veli ora, invece, s'aggrumavano e si rapprendevano sugl'impiantiti, come superflui vestimenti dismessi. E i corpi recuperavano, disinibiti, la loro trionfale presenza. Corpi atteggiati in posture da marmi ellenistici: ripresi di schiena, di fianco, frontali; come nella grande tela delle Panatenee; dove il pittore si autoritrae di schiena, scegliendo per sé un'attitudine bilanciata, che quasi evoca in controparte la posa del David michelangiolesco (di quello emulando, peraltro, anche il braccio piegato, con la mano portata alla spalla); e a lui si volge, scattando col capo, un discobolo gradivo; mentre un assorto comprimario, da dietro un'arma fiammeggiante di riflessi argentati, osserva la scena.

La luce cade sulle clavicole e sui pettorali; infiamma le chiome e brilla sull'epidermidi lustre; dal buio aggallano i nudi torniti, e perfino virtuoso si fa il gioco degli sbattimenti delle ombre fonde. Sono esiti espressivi che soltanto da una lenta meditazione su scenari caravaggeschi possono sortire. E giusto nelle Panatenee può celarsi il bandolo che riconduca alla genesi inventiva e formale del nucleo di pitture eroiche di Gianni. E anzi proprio in quell'effigie tergale di sé; in quel bilanciarsi del corpo, che fa perno sulla gamba sinistra; nel tronco che leggermente s'inarca, com'accade nel modello ellenistico del Torso Gaddi; nei muscoli sbalzati dal lume che spiove. Postura ancheggiata e flessuosa, seppur d'impianto saldo, che alla mente riporta modelli secenteschi d'aulica poesia; a mezza via tra caravaggismo, appunto, e classicismo. E, volendone prospettare addirittura un prototipo, ci s'avvedrà che quell'attitudine varia di poco quella in cui si dispone un giovane seminudo nella tela sublime dipinta da Velzquez sul 1630, dove s'illustra l'episodio dell'ostensione della veste di Giuseppe al padre da parte dei fratelli.

Né la posa dell'atletica figura è l'unico indizio, nelle Panatenee di Gianni, del suo interesse per il grande maestro iberico; così fortemente suggestionato - all'epoca della Veste di Giuseppe - dalle novità del Merisi. Il passo narrativo (solenne e severo), il gestire quietamente ritmato, la sospensione dei moti dell'animo, e finalmente il ruolo giocato da luci e ombre, nell'archetipo caravaggesco, sono attestati veraci d'uno studio appassionato condotto da Gianni sugl'incunaboli del moderno naturalismo.

E ci s'accorgerà - aggirandosi noi pure in quel contesto - quanto sia affidabile, per un'indagine su queste sue figurazioni, la via velazquena. È giustappunto nelle storie concepite da Velazquez intorno al quarto decennio del Seicento che si troveranno nuove occasioni di riflessione. A cominciare dalla Fucina di Vulcano, cronologicamente e stilisticamente contigua alla Veste di Giuseppe: brano d'intensa lirica, che ancora insiste sulle nudità struggenti, sulla recitazione austera, sui lampi della luce e, per converso, sui pathos delle tenebre.

In un vano scurito dai fumi d'un fuoco sempre acceso, cinque uomini a lavoro di forgiatura dei ferri, cinti soltanto da perizomi di panno grezzo, s'arrestano di colpo al sopravvenire sfolgorante del Dio. La lena dei tre intorno all'incudine, su cui un istante prima s'abbattevano a ritmo cadenzato i mazzuoli, par come raggelata dal subitaneo flash dell'inattesa teofania. Nell'uomo di spalle non riuscirà arduo rinvenir di nuovo il germe dell'idea di Gianni che si ritrae da dietro. Ma è piuttosto nella barellante coreografia dei quattro fabbri all'opera, nella solennità dei loro gesti, in quel giustapporsi della solarità dei corpi nudi, o delle rosse incandescenze della fucina, ai bagliori freddi dei metalli lucidati (appesi alle pareti o in procinto d'esser portati a finimento, lì sulla ribalta), che si potrà avvertire tutta l'influenza di Velazquez sulla cultura figurativa dell'artefice attuale (così come, emblematica, si manifesta segnatamente nelle Panatenee). Dove peraltro si ritroverà anche la varietà di timbri che impronta la Fucina di Vulcano: dal monocromo rossobruno dei corpi (che un più risentito luminismo fa sbucare dal buio fitto d'un vano precluso alla vista), allo sfavillare degli acciai di macchine lustrate come moderne corazze, ai colori infiammati di stoffe leggere che a terra ricadono, e s'affastellano.

E da ultimo - con lo sguardo che stringe il campo fin a concentrarsi su dettagli di contorno - ci s'accorgerà, nella tela antica, d'un brano di 'natura morta' prezioso (e perciò inatteso in quell'officina polverosa e trasandata). Sulla mensola che profila la cappa del camino, di scabra muratura, stanno posati una caraffa di porcellana bianca, con barbagli di lume sulla pancia, e, poco discoste, ciotolette finissime (all'apparenza buttate lì, e invece di composizione studiata). Affabile apparizione d'oggetti domestici e insieme eleganti. Una di quelle che il naturalismo del Seicento ha tramandato e che da sempre commuovono l'animo di Gianni. Sicché nella scena di Velazquez vengon quasi a raccogliersi i temi che sono a lui cari, per di più figurati secondando un'espressione che parimenti tocca le sue corde.

Quest'insistenza sul pittore spagnolo parrà ancor più giustificata quando si consideri un'altra grande tela della cosiddetta Serie omerica. V'è ritratto un giovane nudo, seduto a gambe divaricate, con due veli di squillante cromia messi a coprire una coscia e il ventre. In testa porta un elmo luccicante d'oro: unico pezzo rimastogli addosso dopo aver lasciato ogni altro vestimento d'armatura. Una luce, come di faro, lo illumina arrivandogli dall'alto e cogliendone il fianco destro. Le ombre di quel fascio radente s'allungano sulle nudità. D'intorno gli stanno (e ai piedi) le solite macchine; ormai definitivamente spogliate delle loro funzioni originarie e caricate di nuove incombenze. Armi, appunto. Quelle che, surreali, sono state accantonate per un riposo pensoso.

Ora che s'è parlato di Velazquez, a nessuno sfuggirà la relazione stretta che lega il quadro di Gianni al Marte in riposo dell'antico maestro. Le posture divergono un poco; ma rimane l'invenzione dell'attitudine riflessiva imposta a un guerriero senz'abiti, che se ne sta seduto a cosce larghe, coi panni che ridondanti ne celano le carni intorno al pube, coronato soltanto d'un copricapo da guerra, e con le armi deposte sull'impiantito; mentre la luce dall'alto ne segna l'anatomia, che nella tela del Seicento si mostra imbolsita e fragile, quantunque se n'indovini la robusta complessione d'un tempo.

Alla stessa idea rimonta un'altra tela di Gianni in cui si torna a effigiare un nudo immaginato all'eroica. Ancora, ma più sobrio, compare il corrusco armamentario. Ancora la luce scende dall'alto a scaldare le carni e a cercare nei metalli i luoghi dove specchiarsi più tersa. Il resto, conforme d'altronde al Marte di Velazquez, è nascosto nel buio astratto d'una stanza senza spazio. E però, come in fondo succede nel Marte (che alla fine è solo un rude popolano, assoldato per far da modello, e ripreso, con aria struggente, in un intervallo di posa), l'uomo della tela moderna sta perdendo i connotati allegorici che l'altro giovane con l'elmo pur tuttavia sfoggiava. Ormai piuttosto si può dire d'essere davanti a un vero ritratto. È l'amico che appare. Col corpo esibito nella sua quasi integrale nudità, accanto al consueto repertorio d'oggetti amati.

In questo genere di pittura, cui Gianni talora anch'oggi si volge, ma che ha avuto il suo momento cruciale fra il 1994 e il 2000, il corpo si riscatta. La tradizione, che il pittore ha indagato in vista d'una sua originale sigla, si fa anche viatico d'un percorso intimo, dal nascondimento all'outing formale. Il corpo si libera alla gioia della manifestazione. E s'arriva ai grandi fogli quadrati con monumentali quarti di nudità (qui, al Museo Marini, esposti numerosi e in serrata sequenza in modo che ne sorta tutta la felicità poetica che l'informa). Per essi certo giova riandare alle riflessioni poc'anzi svolte sull'ascendente d'oltreoceano; purché s'abbia però l'accortezza di seguitare a tener nel giusto conto la distanza ideologica (e non solo cronologica) che li separa dagli esiti pop.

Vale dunque ciò che s'è già detto riguardo alla stagione giovanile di Gianni e ai suoi ingrandimenti improvvisi su dettagli di tralci o su marchi di fabbrica, dove, pur vigendo l'influsso della matrice espressiva americana, tralucevano la discrezione dell'approccio e l'amabilità dei sentimenti: caratteri distintivi d'una disposizione culturalmente e psicologicamente lontana da quella che improntava le icone create dall'avanguardia figurativa di là dall'Atlantico.

Gli stessi affetti si riscontreranno nei particolari che Gianni espunge dai nudi: talora l'ingrandimento della stretta d'un polpaccio e d'una coscia (col ginocchio forzato a una complessa flessione), talaltra quello d'un bicipite accostato a un pettorale (con l'accenno della rima di un'ascella), oppure quello d'un gluteo, che una rigida posa in piedi rende teso. Magari l'espressione parrà qui più risentita, e pertanto più in sintonia proprio con le invenzioni pop. Ma in queste carni ostentate, prive d'ogni fisionomia di volto, fermate nella loro solare fisicità, come fossero lacerti marmorei di un'antichità eletta e grandiosa, niente sopravvive di quell'eclatanti esperienze. È semmai la vena lirica dei classici quella che in esse vibra. Classici riletti, sia nelle fulminee e struggenti visioni impresse in versi mutili d'anonimi poeti, sia nei brani di un'epica che sa tramandare toni eroici e, insieme, sentimenti delicati.

Nelle attitudini imposte ai corpi - tutte, o quasi, ispirate a prototipi ellenistici - par quasi riviva lo spirito dei maestri di primo Cinquecento, che, giusto riscoprendo il forte timbro patetico di quei modelli, li assunsero a guida dell'arte loro, pervenendo così a un'espressione nuova, che Giorgio Vasari avrebbe definito "maniera moderna". E verrebbe di pensare che anche per Gianni il rinnovato studio di marmi languidamente attorti, 'aspri' e 'dolci' nel contempo, informati - come finemente scrive l'aretino - a una graziosissima grazia (dal Laccoonte, al Torso del Belvedere, all'Ercole, all'Apollo), sia stato cagione di levar via una certa maniera secca e cruda che un tempo ne condizionava la fattura dei nudi.

Al cospetto dei fogli con dettagli di corpi torniti verranno però alla memoria le immagini calde e commosse di Sandro Penna. E scrive, lui, di "sole senz'ombra su virili corpi"; di "lucenti spalle / balde in piscina"; dei "giuochi di un atleta bello / nel vespero lungo d'estate"; di "sole che ha brunito" i corpi; del "tempo / quando vinti al gran sole i nudi corpi / turbavano" il suo cuore. Immagini che, come nei quadri di Gianni, rievocano età lontane e magnifiche. Ancora Penna: "Veloce va l'atleta adolescente / entro il meriggio placido e lento. / Ma lo abbraccia il crepuscolo, e ne spicca / adesso la sua ferma ombra in Atene". E poi: "Muovonsi come fregi / antichi sotto il cielo / nuovo di stelle".

Ma a ragionar di Penna, potrebbe riuscire spontaneo chiedersi se non ci sia (o non s'accentui) in quest'ultimi quadri di Gianni - così come nei versi più tardi del poeta - una melanconia velata e dolce, a dispetto della flagrante prosperità delle carni. Una coscienza matura del tempo che ineluttabile trascorre. Della bellezza che continua a fiorire nei corpi dei giovani. E dei sensi che restano immutati nel cuore, anche quando le membra declinano.

Lo sguardo, finora vòlto alla vigoria splendente dei nudi, si posa ora - con la medesima consapevolezza - sui veridici riflessi dello specchio. E nasce un autoritratto ch'è d'annoverare fra i dipinti più riusciti e vibranti di Gianni. Per esso mi son finto lui - in un primo pomeriggio d'estate, col sole che avvampa - nel verde che cresce rigoglioso intorno alla sua dimora maremmana. La foto scattata da un amico; mentre Gianni accenna un sorriso sotto la tesa del panama che gli ombreggia metà volto; come se quest'effigie fosse una zummata sull'attore d'una luminosa scenografia di Hockney.

I bianchi s'accendono, però, sulla camicia sgualcita di lino e sul colletto invece inamidato, alla stregua d'un ritratto dipinto da un pittore del nordeuropea: uno di quei danesi - magari - che nell'Ottocento per studio scendevano in Italia. E giravano le stanze dei musei, sbalordendo davanti a capi d'opera appresi sui libri e forse immaginati d'altra taglia (come poteva capitar con la Flagellazione di Piero della Francesca; così domestica, al vero, e tuttavia grandiosa, a vederla riprodotta). E poi le puntate sulla costa; a guardare il nostro mare, quelle terre e quei cieli, ch'essi conoscevano belli per via di quadri con limpide vedute di paese, che dall'Italia erano giunti alle loro città lontane. E accadeva che fra sé si ritraessero, coi visi felici e stupefatti di quelli che hanno concretato un sogno.

A Gianni, di quella foto scattata a Lattaia, sarà piaciuto il gioco degli sbattimenti di luce e d'ombra, che rinvia all'iconografia secentesca, a lui tanto grata. Ma finalmente gli saranno anche garbate le sue mutate sembianze, un po' più che altrove segnate dal tempo, eppure serene (così diverse da quelle figurate nell'altro narcisistico autoritratto degli Uffizi). È una più matura coscienza di sé quella che detta il passo. È la stessa che si riverbera negl'inediti nudi. Una libertà nuova si prospetta in queste sue più recenti prove. Ed è, forse, l'esito - che solo l'età può far toccare - di un'aspirazione a concedersi alla vita (e per conseguenza alla poesia) più con gli affetti che col pensiero.

Mostra al palazzo Comunale di Pistoia

Luigi Baldacci - 1994

CACCIARINI UNO E DUE

"Queste incisioni di Gianni Cacciarini, immagini di viti, di viticci, di pali di sostegno, non richiedono un lungo discorso. Forse meglio sarebbe non anticipare nessuna parola, poiché l' opera grafica di Cacciarini è di quelle cose che parlano da sole e fanno pensare al tempo in cui la critica, cioè l'intenzione, la ragion poetica, erano tutte calate dentro l'opera e l'opera stessa assolveva, col suo linguaggio non di parola, ma più nitido, più preciso e inequivocabile, il compito di spiegare se stessa. La spiegazione era pari alla cosa: quando, ripeto, l'opera era un fatto, non un programma e una progettazione, un'idea che possa essere raccontata o descritta.

Le viti di Cacciarini non ammettono mediatori. Sono prima di tutto una così compiuta realtà di linguaggio - vale a dire di rapporto tra manualità e visione - che la parola rischierà sempre di essere una didascalia pericolosamente letteraria. Noi siamo anche troppo abituati a fare storia delle arti figurative: a cogliere la differenza tra la cifra di Caravaggio, quella di Guido Reni, quella di Luca Giordano. Ciò che però ci sfugge non è il discorso di quei pittori, ma la singolarità dei loro fonemi. In ultima istanza i fatti figurativi si apprezzano solo attraverso un ravvicinamento estremo dell'oggetto, con tanto di lente d' ingrandimento. E lì che le nostre storie più o meno di comodo, piu o meno romanzate, cedono la parola allo specifico di quell'espressione. E lì che ha ragione d'essere soltanto la forza dell'occhio, il nostro occhio a colloquio speculare con la forza di quell'altro occhio che ha condotto il lavoro.

Questa istanza ultima, questa necessità di cedere la parola e farsi da parte mettendo in pratica una buona volta un'umiltà che non sia solo di parata, mi vengono riproposte dalle incisioni di Cacciarini, sulle quali certo, come persona abituata a dire anche quando sarebbe tempo di tacere, potrei fare molte osservazioni: ma tali da restare sempre al di sotto delle cose concrete che Cacciarini dice da sé. Potrei dire della drammaticità di queste immagini: fili di ferro, giunchi,legacci che stringono tralci addormentati nell'inerzia invernale e legni impassibili e politi come antiche selci. Drruumaticità che suggerisce una forza contenuta e repressa, il senso di una prigionia provvisoria. E potrei dire dell'elemento colore: il caldo nero e muschioso della vite viva e il grigio freddo e levigato del sostegno. Raramente, potrei dire ancora, un artista grafico è riuscito a dare all'incisione tanta possibilità, tanta ricchezza di colore: un colore che è tutto nella suggestione tattile delle superfici e che pertanto si traduce e s'identifica assolutamente nel fatto grafico. E poi ci sarebbe ancora da spiegare quale sia il gioco dell'ombra tra due toni estremi, la vite e il palo, e come essa risolva l' elemento colore in elemento luce e stabilisca la vera chiave armonica di queste invenzioni.

Tutte queste cose e molte ancora si possono dire, ma quanto pleonastiche di fronte alla verità di questo lavoro. Per cui a chi scrive non resta altro che dichiararsi un privilegiato al quale è stato concesso di vedere prima e di testimoniare prima. E testimoniare, io credo, un avvenimento abbastanza eccezionale: che si possa fare opera novissima (basti pensare all'impaginazione di questi oggetti, all' ossessivo fuoco dell'obbiettivo) affidando all'artigiana esperienza della mano la prima responsabilità del fatto artistico. E' una prospettiva che potrebbe apparire consolante se non fosse che il discorso di Cacciarini resterà accuratamente isolato. Una ragione di più per tenerne conto".

Rileggo questa pagina di ventun anni fa e la trovo ancora possibile: soprattutto perla centralità di un motivo: quello che sancisce la superfluità della critica e afferma di contro la fede in una lettura materiale dell'opera che ripercorra il lavoro compiuto dalla stessa mano dell'artista. Il critico non si aggiunge: coincide. Ogni verbalismo è deviante. Le equivalenze della parola sono fallaci.

Certo esiste anche un' arte - ed è quella dominante - che nella parola si risolve interamente. L'arte moderna è tutta - da un certo momento in poi - concettuale. Anzi, il significato dell' opera si sposta sulla parola, e l'opera è una semplice enunciazione: basta dirla ed è già davanti agli occhi della nostra mente: inutile verifica (ammesso che ce ne sia la possibilità) la sua realizzazione.

Il lavoro di Cacciarini non appartiene a questa pratica, o diciamo meglio a questa teorica.  Rientra bensì nel rapporto. come si diceva a proposito delle sue viti, tra l'occhio e la mano: quel rapporto che, al di là di una lettura materiale, punto per punto, nessun letterato potrà esplicitare con la sua penna.

Né si richiede ala di poeta per dire la differenza tra la grafica di Cacciarini e la sua pittura. Molti lo preferiscono al primo momento, che poi, cronologicamente, lo caratterizzava ai suoi inizi. Anch 'io sarei di questo avviso, se si dovesse guardare alla bravura, allo sfoggio delle sue incisioni. E anche alla loro capacità di trasmettere dei sentimenti: penso soprattutto alla serie delle fabbriche in abbandono, con la suggestione di attesa che si trasmette al riguardante. Ma c'è in Cacciarini un' ansia, non dico di modernità ma di cangiamento, che gli ha fatto sistematicamente disdire le proprie ori&ini: quelle legate a un maestro che avrebbe potuto affermare, come Verdi: "Torniamo all' antico e sara già un passo avanti." Le sue macchine desuete, che non servono più e sono ridiventate, scomparsa la funzione, oggettività pura, sono temi che nascono appena nella grafica di Cacciarini ma si sviluppano solo nella sua pittura: ed ecco una serie di nature morte e di assemblaggi da cui provengono avvertimenti inquietanti. Muore la macchina e l'uomo non è ancora nato. In verità, l'uomo, che era stato il grande assente in questo mondo di reperti, appare per ultimo, come nella creazione. La sua prima immagine è ancora legata a un tenebrismo secentesco; è ancora un uomo filtrato attraverso la storia della pittura, che diventa protagonista solo dal momento in cui la sua immagine perde ogni ipoteca ed ogni continuità culturale.

C'è un' evidenza barbara d'iperrealismo in questo punto d'arrivo, che non è ottenuta attraverso il mezzo tecnico, e cioè ingrandendo e sgranando il reticolo di una fotografia; è bensì una visione pop realizzata con una sooraesposizione, sicché le luci sono come calcinate addosso ai corpi e alle cose. L'ultimo quadro finito prima di questa mostra - i tre nudi che arieggiano un'astrazione compositiva che fa pensare alla Visitazione del Pontormo - è come accecato nell'attimo di un'esplosione atomica. Cacciarini ha bruciato tutto il suo itinerario di formazione. C'è qualcosa di americano in immagini come queste? Certamente, essendo diventata l'America un emblema della nostra perdita d'identità. Ma è significativo che la riproposta di un'intuizione umanistica - lo schema del Pontormo -s'identifichi col suo contrario, con un naturalismo da fine del mondo.

Se continuassimo a parlare altro non faremmo che tradire il saggio proposito d'apertura: lasciar parlare l'opera, che infine vuol dire riportarla dal probabile significato che noi le abbiamo attribuito (piu che significati, segnali) alla certezza della sua fisicità di costruzione e di colore. Un'opera che a me pare oggi importante, ma, essendo fatta per l'occhio e non per l'azzardo intellettuale, è ovvio che a decidere non saremo noi con le nostre combinazioni verbali, ma l'occhio di chi la fruisce.

Mostra al palazzo Comunale di Pistoia

Carlo Sisi - 1994

GIANNI CACCIARINI IN PROGRESS

Fuori dall'agonismo contemporaneo, l'opera di Gianni Cacciarini dimostra un'indipendenza psicologica e, di conseguenza, ottica e formale, che ha come traguardo estetico I'incorruttibilità dell'immagine e l'afasia, intendendo con questa lo smarrimento cosciente della fragranza naturale delle cose, che può
rammentarci oggi la perdita della parola - gloria conclamata dell' antropomorfismo - nel dialogo dei manichini metafisici.

A dire il vero, questo processo di 'scarnificazione' del reale si è accentuato in Cacciarini nel volgere dell'ultimo decennio, con dipinti spartiti da campiture nette di colore, a delimitare orizzonti di luce abbagliante che paion quasi riverberi delle variate superfici metalliche degli oggetti cari all'officina poetica dell'artista. Sempre più investite di una loro impassibile maestà ellettrotecnica, le macchine adombrano, da parte loro, un classicismo per così dire astorico, privo cioè della stratificazione memoriale che fu sempre, invece, la qualità emozionante delle sue ricorrenti manifestazioni. Un classicismo senza ricordi, dunque, che semmai trova lontane radici nella monumentalità estraniata dei mobili fuori casa dechirichiani, assimilati, è noto, a parti solide di edifici in costruzione - come i templi sulle cui soglie si arrestavano le Furie - e non mai a frammenti o reliquie di stagioni mitiche e irripetibili.

Si vuol dire che, più si avanza nel tempo, più le composizioni di oggetti di Cacciarini dimostrano di reagire ad ogni interpretazione che le assegni ad ambiti archeologici, come accadeva già alla fine degli anni Settanta, quando le prime macchine da scrivere e i ventilatori parvero, ad alcuni, anteporre la loro mole obsoleta al 'disumanesimo' e al nomadismo intellettuale che contraddistinguevano allora la generazione degli artisti forrnatasi nel mito della palingenesi promessa dalla cultura sessantottesca. A confronto poi degli stilismi postrnoderni, con i loro esperimenti di ipermanierismo, citazionismo, nuova maniera, e agli esoterismi concettuali dell'arte povera, il costante lavoro di Cacciarini sulla materia dell'opera - la tempera, ma anche gli inchiostri delle sue incisioni - e gli accordi compositivi di volumi e cromie pensati come canoni di una modema retorica, sembrano oggi indicare un varco, una possibile risposta alle aspirazioni contemporanee di un'arte che attinga - pm con traduzioni diverse dell'immagine - all'integrità della figurazione, alla compiutezza della forma.

Il dominio della tecnica pittorica, che conferisce alle opere un aspetto finito, come.chiuso a doppia mandata, impedisce a chi zuarda di rappresentarvi una parte per quanto minima, così che l'immagine si impone evidente al pari dclia realtà ma però chiusa al colloquio quotidiano, alla narrazione del particolare; quasi impegnata a difendere il proprio mistero. Ne dipende,di conseguenza, un'astrazione che trae la sua origine, imprevedibilmente, dalla fiducia ad oltranza riposta dall artista nei mezzi tradizionali della pittura ma, rispetto ad essi, essa non ricorre a citazioni e carichi simbolici affidandosi invece con dedizione totale a rappresentare gli oggetti per via anlogica e col sussidio della variatio compositiva.

La diminuzione progressiva delle apparenze naturali, che Cacciarini ancora attribuiva, agli esordi della propria avventura estetica, a congegni meccanici già di per se stessi votati, con l'esaurimento dellafunzione, ad un destino di forme, si avverte soprattutto nella serie di sei composizioni con due oggetti ciascuna ( ), quasi metope sottratte a quel tempio dechirichiano che abbiam detto solido ed eterno nella sua stereometrica anastilosi, intatto da ogni rimpianto e malinconia. Egualmente impassibili e sigillati entro un involucro di materia perenne sono i dipinti con il ventilatore ( ) e l'aspirapolvere ( ), ove le macchine si stagliano su un orizzonte infinito - mare e cielo della memoria, che traduce in superfici astratte le emozioni originarie - contro il quale svanisce ogni pur minimo ricordo delle 'camere magiche' degli anni in cui l'artista decantava, con personalissima applicazione, l'esperienza dei pittori moderni della realtà.

Già in quei primi esercizi di analogia formale, che abhiam detto riscaldati di parvenze naturali, si faceva tuttavia strada una propensione alla messa a fuoco analitica degli oggetti scelti e composti in studiati allestìmenti, una cultura americana dell'immagine - lo si dice in altri interventi di questo catalogo - che riassume, o meglio coagula nel segno dell'oggettività, pensieri ricorrenti sull'isolamento ottico lella realtà osservata (spesso con l'ausilio della macchina fotografica), e sull'interruzione della continuità spazio-tempo fra l'oggetto rappresentato e le sue relazioni affettive o funzionali. A questo proposito si scoprono nessi suggestivi anche scorrendo le prime serie di incisioni di Cacciarini, non appena 'si provino ad accostare, per esempio, una delle viti al DIO di Morton Schemberg, giunto a gomito e pezzi di ricambio idraulici composti seguendo la stessa torsione di un vitigno innestato; o una dclle fàbbriche all'Interno di città di Charles Sheeler, opere entrambe pensate quali metafore formali di una nuova concezione del paesaggio e del tempo che lo ha - con la stessa impassibile geometria - prima disegnato e poi distrutto.

E sufficiente del resto frequentare lo studio di Gianni Cacciarini, colmo di oggetti per ora accantonati come parole di un vocabolario pronto ad essere composto o un inventario di mute comparse sottratte ad un set cinematografico, per vedervi affiorare quella disposizione all'analisi della realtà che fa tornare alla mente (restando così nella colorazione metafisica che abbiam voluto intravedere agli esordi del pittore) i pensieri di Cocteau intorno alla necessità impellente che hanno le cose di essere spiegate, ed anche a quella sua straordinaria immaginazione di vedere irrompere la polizia nella camera di un poeta ove il più piccolo oggetto potrebbe testimoniare contro di lui, che deve così difendere il suo segreto, come un delitto mai commesso.

Il suo segreto Cacciarini lo ha però svelato col grande quadro di figure che conclude il tragitto quasi ventennale della mostra, ed è quello di una sua intensa applicazione alla calma antica dei modelli in posa', ultimo approdo di una passione oggettivante che non può tuttavia eludere, per il protagonismo dell'uomo, almeno una traccia raggelata di passioni: l'eco lontana di incidenti che sono accaduti pochi istanti prima, nei quali la velocità è stata come sorpresa dall'immobilità; attimi in cui i personaggi sono stati colti sotto l'influenza dell'inatteso e della paura. La fiducia nell'esercizio della pittura ha dunque concesso, all'artista un volo più alto negli spazi della conoscenza, da dove poter rivedere se stesso e i rinnovati orizzonti dell'analogia.

Mostra al palazzo Comunale di Pistoia

Roberto Fedi - 1994

GLI OGGETTI DESUETI DI GIANNI CACCIARINI

Sulla scena figurativa di Cacciarini l'uomo, di norma, è assente. Ne deriva come una sottile distonia, che si insinua fra chi guarda e gli oggetti ritratti, fino a un leggero disorientamento. Quegli oggetti ci sembrano familiari, sono stati di qualcuno o avrebbero potuto far parte di un qualche nostro immaginario corredo, ma ecco che adesso sono come isolati, 'fermati' in un momento della loro e nostra storia: la quale, da quel punto in poi, non ci appartiene più e si fa autonoma, procedendo per sue vicende solitarie, fuori di noi. Le macchine da scrivere d'antan, le caffettiere, le lampade e tutte le cose che un tempo forse rientravano (o almeno così ci parve) nelle nostre abitudini d'uso, una volta private o liberate dalla consuetudine umana mutano scala e proporzioni, si ingigantiscono, perdono un punto di riferimento, spostano il punto di vista: divengono - si potrebbe azzardare - elementi quasi architettonici o meglio monumentali nella loro dimensione figurativa e spaziale, e si avvolgono di illusioni mitiche aprendosi a richia- mi memoriali. Di conseguenza l'esperienza umana si fa imprevedibilmente più piccola come in un ribaltamento di scala, è quasi assorbita da quelle nuove altezze, da quei piedistalli di latta, dalla mole di quei mastodontici diòsperi accatastati come omaggio - naturale ma adesso fattosi bizzarro - a una qualche invisibile ma compiaciuta presenza: proprio in quel luogo qualcuno, forse un abitante di uno swiftiano regno dei giganti, li ha, per così dire, provvisoriamente dimenticati. Noi, al pari di Gulliver nell'isola di Brobdingnac, li ammiriamo adesso come se fosse la prima volta.

Ne restiamo sottilmente contraddetti. Al punto che, se volessimo dare un nome a quelle figure, o iscriverle in qualche ambito figurativo riconoscibile, ci accorgeremmo che la nozione di 'natura morta' è fuorviante, e forse inutilmente crudele: per quel tanto di funereo che la connotazione (direbbe un linguista) comporta, per quel senso struggente di totale perdita - e definitiva - sigillato nel sintagma italiano. Dovremmo, perciò, cercare altrove, in altre esperienze e in altri musei, o in altri dizionari. Ci passa per la mente il ricordo di qualche cartellino decifrato lontano da qui, e proprio per questo più straniato, meno figurativamente presente; quindi più vivo, proprio perché non abusato e anch'esso desueto. E perciò assumiamo per Cacciarini non la cimiteriale e cattolica definizione di 'natura morta', bensì il corrispettivo anglo-americano, che ribalta i termini a noi più consueti.'Still life': 'vita ferma'.

Si potrebbero fare ricerche accademiche, su questa tradizione in apparenza così infedele, e invece rivelatrice di ben più consistenti memorie culturali - alle quali Cacciarini non pare estraneo: le sue macchine da scrivere sono piuttosto typewriters, i suoi ventilatori fans, i suoi ricordi hanno il nitore cinematografico e lo spessore sentimentale dei cult movies, anche nella dilatata dimensione del 'primo piano'. Il sintagma italiano, la 'natura morta' - drammatico come una sentenza capitale, intriso di sapori dolciastri, di corruzioni da obitorio e di De profundis - nella terminologia anglosassone si è infatti mutato in un ossimoro, in una apparente contraddizione in termini. Ciò che osserviamo è allora una vita immobile, anzi 'ferma': ma purtuttavia ancora 'vita', non corrotta, pur sempre aggraziata. Stiamo uscendo, come si vede, dall'ambito pura- mente retorico e nominale, perché quella definizione si fa immagine, ed in essa a sua volta balena un'astrazione: essendo quella condizione (la vita 'ferma') impossibile in natura, e solo riconducibile a un atto di volontà. Come sempre accade, dietro ogni figura retorica c'è un processo intellettuale ed esistenziale, e quindi in ultima analisi una forma di interpretazione della realtà.

Nelle figure di Cacciarini è dato assistere alla fine di quel processo, alla sua sintesi; per meglio dire, all'esito di una selezione dell'esistente, da cui l'autore ha estratto particolari adesso non più accessori, ed anzi elevati al rango di protagonisti. Non cadaveri, quindi, su quelle scene; non cimeli patetici, piccole e buone cose di pessimo gusto, ossi di seppia scartavetrati e resi essenziali dalla marea. Insomma: non un trovarobato teatrale e ottocentesco magari ironicamente rispolverato, né un atomo di Novecento ridotto ai suoi minimi termini dallo sgomento del nulla. Piuttosto uno scarto dell'attenzione, una dimenticanza, che ha isolato per l'occhio una frazione del mondo. Un ossimoro, si è detto, proprio perché le figure di Cacciarini si nutrono di memoria letteraria e di procedimenti mentali e, direi, verbali: un'unità minima che di per sé non dovrebbe esistere, ma che proprio nella sua apparente inconciliabilità trova una sua plausibile vita, pur 'ferma'. L'oggetto rappresentato, o lo scorcio di un sopravvissuto reperto di archeologia industriale, presuppone nell'autore, e in noi che osserviamo, l'idea preesistente della sua realtà semantica, il suo nome insomma (la sua denotazione, direbbe il linguista di poco fa); però quell'oggetto adesso non vive solo in grazia della vocalità o della scrittura ma, con un atto di volontà e di interpretazione, si trova inverato nella pittura e nell'incisione.

L'arte di Cacciarini, in apparenza fredda e iperrealista, è nutrita di una profonda, non smentita fiducia nel valore umanistico della parola. L'oggetto, la 'cosa' ritratta (uso il verbo nella sua normale accezione pittorica), sono tali in quanto nominati dall'autore - si potrebbe dire, per un lapsus, 'scrittore' - e da lui rappresentati in virtù della loro appartenenza all'universo non astratto delle cose dette, usate, manipolate. Su quei piani senza sfondo, in quei panorami una volta industriosi, fra quei tralci di vite l'altr'ieri ha vissuto l'uomo: che ha dato un nome a quelle cose, che ha indirizzato lì i suoi gesti, che ha manipolato quegli attrezzi. Ciò chè non sapeva, forse, era che dopo il suo passaggio quell'universo sparpagliato si sarebbe ricomposto, senza polvere e con grande dignità, in una nuova dimensione: più grande proprio per l'assenza del paragone umano, e talvolta smisurata come su uno schermo cinematografico. Lì, però, l'uomo avrebbe lasciato una patina della sua storia, forse i nomi delle cose. Cacciarini ha dato una sostanza a quei flatus vocis, li ha rivestiti di metallo e di mura, li ha ricollocati.

Gli oggetti desueti di Cacciarini nascono quindi dalla nostra memoria; o, meglio, da quella che noi sembra essere la nostra memoria. Perché, se riflettiamo appena sulla loro realtà, ci accorgiamo che essi (gli oggetti o le mura) appartengono ad un passato prossimo sulla via di diventare remoto, che probabilmente non ci è mai stato concesso e che abbiamo ricostruito e rivissuto - anche noi sentimentalmente - sulle ali di una mobile facoltà mitopoietica, traendolo da anni Trenta-Cinquanta letterari o piuttosto cinematografici. Da qui quel senso di leggero squilibrio, forse anche di complice sorpresa, che ci prende alla prima occhiata, un po' come se vedessimo Humphrey Bogart tranquillamente seduto al caffè sotto casa. Familiare al punto da non stupirci subito, ma solo dopo un secondo, quando la ragione ha spodestato la mitologia - e allora, però, con un di più di ripiegamento esistenziale, con una leggera stretta al cuore.

Così accade per questi strumenti, perfettamente funzionanti ma riposti perché 'antichi' e manuali; così per i padiglioni industriali, dismessi per più asettici luoghi tecnologici. Il pennello o la punta di Cacciarini si incuneano leggermente in questa distrazione della conoscenza e in questa contraddizione temporale, ci regalano la conferma della nostra suggestione un po' inquieta, e ne rivelano la profonda natura sentimentale. In realtà mai appartenuti a noi ma al ricordo di qualcun altro che ci ha preceduto, divenuti nostri per virtù puramente umanistica e letteraria o per sforzo di volontà, quegli oggetti riscattano in questo modo il patetismo della loro inutilità temporanea o definitiva: perché si tratta di cose usate, di fili della luce contorti come i tralci della vite, di ventilatori monumentali a cui però la tempera o il tratto restituiscono spessore, dimensione e calore. La nuova mole serve come antidoto alla loro decadenza, al nostro sempre possibile ripiegamento, alla nostra e loro autocommiserazione. Oggetti pensati e scelti, quindi nobili, sono ritratti come monumenti nella asciuttezza formale che fornisce loro l'assenza di sfondi, il chiaro delle pareti. Come certe figure precise ma emarginate dalla loro quotidianità strumentale, essi non danno ombre; la luce li colpisce dall'alto, e li isola. Non offrono il dono nostalgico di malinconie possibili, ma allo stesso tempo l'occhio ne coglie il tepore, e ne capisce l'isolamento - non la solitudine. Dato che vivono di per sé, non sono nemmeno il correlativo oggettivo di qualcosa che è fuori di loro, né vengono sfiorati dallo sgomento di pretese metafisiche.

Qui sta l'umanesimo di Cacciarini, in questo virtuoso equilibrio tra le due alternative possibili, e sempre in agguato: le buone e gozzaniane cose di pessimo gusto, e l'eco dell'altrove metafisico o surreale. Se gli oggetti qui sono il simbolo di qualcosa, li direi allusivi ad una condizione di transitoria desuetudine: quindi non definitivi come in una tassonomia, non passati categoricamente nel repertorio dei simboli del Novecento - né, tantomeno, accatastati nel retrobottega
piagnucoloso o ironico di un tardo Ottocento di sorelle-mamme pascoliane o signorine Felicite.

Come la figura retorica dell' ossimoro, periclitante sempre fra due opposte tentazioni verbali, le figure di Cacciarini hanno un passato e desiderano un futuro, possiedono una ben attanagliata memoria di uomini e di gesti, e trattengono il fiato in attesa di una vita propria, domani. Forse, non hanno presente. Qui sta la loro morbida voglia di contemporaneità (se il termine ha un senso), proprio in questa durata del ricordo; proprio nella loro volontà di essere, pur sempre, nominate e forse ridimensionate dall'uomo.

Da qui, anche, il sottile velo d'ansoscia, o di ansia, che subentra all'iniziale e fallace impressione di familiarità o dimestichezza. Una stretta d'apprensione che pare rendercele più vicine e solidali, una volta svelato il lapsus della memoria. Non sono le reliquie bruciate di un day after della conoscenza, perché la loro morbidezza non appare scalfita da alcun trauma di disumanità. Oggetti funzionanti e lucidi ma riposti, rappresentano il senso allarmato di chi, con singolare acutezza, ne descriva i contorni e le nuances, dopo aver trasferito quegli oggetti solo temporaneamente desueti da un indefinito (forse altrui) passato in una propria memoria invece vigile e attiva, solamente per un poco sospesa. In queste cose remote eppure strenuamente presenti, proprio perché rinnovate al punto da conservare ogni minimo dettaglio, Cacciarini sembra aver risolto quella contraddizione fra spazio e tempo di cui scriveva Leopardi: «Chi viaggia molto, ha questo vantaggio da gli altri, che i soggetti delle sue rimembranze presto divengono remoti; di maniera che esse acquistano in breve quel vago e quel poetico, che negli altri non è dato se non dal tempo. Chi non ha viaggiato punto, ha questo svantaggio, che tutte le sue rimembranze sono di cose in qualche parte presenti, poiché presenti sono i luoghi ai quali ogni sua memoria si riferisce» (Pensieri, LXXXVII)

Mostra al palazzo Comunale di Pistoia

Antonio Natali - 1994

LA MEMORIA DELLE COSE

Mi è capitato in altra occasione, era il 1984, di scrivere di Gianni Cacciarini. Si trattava allora di parlarne dopo aver selezionato - nell'ambito di una mostra al Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi dedicata alle acquisizioni dell'Istituto fiorentino nell'arco d'un intero decennio - due opere grafiche che fossero rappresentative non solo del nucleo di fogli suoi donati agli Uffizi, ma possibilmente anche della poetica di lui.

Da una trentina di carte, ch'erano già uno sceltissimo florilegio, decisi d'estrarre un'acquaforte col particolare ingrandito d'un tralcio di vite e un'altra con lo scorcio prospettico di una fabbrica abbandonata (tav. 4). Mi parve in quel frangente - e tuttora sono del medesimo avviso - che i soggetti, così com'erano resi, consentissero di.condensare nello spazio di due schede brevi (ch'era quanto concedeva l'economia di quel catalogo) i tratti salienti della poetica, appunto, di Cacciarini; almeno di quella che trovava espressione nel suo corpus grafico: la predilezione, cioè, per la visione ravvicinata dei dettagli e, per converso, il disinteresse ostentato nei riguardi dell'intero, il piacere di costruire geometrie e organizzare volumi giocando con la luce e l'ombra nelle loro infinite gradazioni, la nostalgica propensione a rivisitare luoghi brulicanti un tempo (neppur lontano) d'una vita operosa e ora negletti e deserti (quella stessa propensione manifestata del resto per oggetti d'uso - per lo più meccanici - superati dal turbinoso incedere della civiltà moderna).

Non mi pare che nelle linee essenziali si debba aggiungere tanto a quel che ho qui succintamente richiamato. Certo, com'è naturale, il vocabolario s'è arricchito; ma le inclinazioni (che ora non di meno si proverà a scandagliare meglio) sono rimaste le stesse, come in fondo si conviene a una visione del mondo e della vita ch'è ormai matura.

Di sostanziale, da quei giorni, credo sia da annoverare l'ingresso nel microcosmo di Cacciarini della figura umana, che nelle tele è andata, prima timidamente, poi con più coscienza di sé, ad affiancarsi alla quieta eppure salda impaginazione degli oggetti consueti. E tuttavia devo ammettere che ancor oggi reputo quello della figura umana nelle opere di Cacciarini più un inserto che una presenza a pari titolo. Non so spiegarmi se si tratti d'una sensazione che scaturisce da una mia sotterranea misantropia o se invece davvero nell'abbinamento sia l'umiltà delle cose a prevalere sulle persone. D'altronde anche questa seconda congettura può vantare dalla sua proprio l'argomento ben valido che gli oggetti, le macchine, sono da sempre i protagonisti dei racconti di Cacciarini, mentre l'uomo - come si diceva - da non molto vi ricerca un suo ruolo.

Difficile indovinare gli sbocchi futuri. Certo è che, al momento, il livello alto d'astrazione cui Cacciarini aspira e quasi sempre perviene nelle sue nature morte, mi pare incrinarsi quando la figura umana - ancorché per solito assorta, e dunque chiusa in sé, silente al pari delle cose, ma pur sempre, rispetto ad esse, pulsante d'una vita - s'intromette; e quasi denuncia, al cospetto della nobiltà altera delle macchine, una sua volgarità; volgarità che non è nei volti o nei corpi nudi, ma forse proprio nella colpa ch'essi portano - una specie di peccato originale - nell'emarginazione e nel rifiuto d'oggetti (ma anche d'architetture, di luoghi) fortemente voluti e poi, dopo l'uso, reietti.

Uomini e donne si trovano così a fronteggiare oggetti meccanici, quest'ultimi si davvero puri nella loro disarmata nudità, docili in quel loro disporsi riposato - orchestrato dall'artista - su piani indefiniti; mentre la figura umana, quantunque in attitudini del pari imposte, serba pur sempre una sua indomita personalità. Macchine in disuso, ceramiche vecchie, calici e coppe di servizi ormai scompagnati, si offrono invece affabili, soavi come sono le memorie. Insomma, anche se ignoro quale sia la segreta disposizione di Cacciarini nei riguardi della figura umana, mi pare di cogliere nell'opera sua gl'indizi di un trasporto forse più affettuoso per le cose; che sono custodi silenziose del passato, degno d'un riguardo maggiore di quello che il tempo presente (l'uomo) gli riserva.

Sono considerazioni che mi restano utili per tornare su una chiosa che, sempre nel catalogo della mostra agli Uffizi, tacevo all'arte di Cacciarini. In quella circostanza, dopo aver sottolineato la sua solida formazione sui grandi modelli della tradizione pittorica dal Seicento all'Ottocento, e dopo avere anch'io, come altri, richiamato l'eleganza raffinata di Chardin, e poi suggerito la consentaneità con quella austera di Fantin-Latour, e finalmente rammentato l'ascendente della lezione morale di Morandi, accennavo alla possibilità di un'attenzione da parte di Cacciarini anche all'esperienze americane dei primi anni Sessanta, a quelle espressioni cioè che per il loro carattere clamoroso parrebbero invece affatto estranee alla natura dell'artista.

E tuttavia notavo, specie in quelle zummate sui particolari (in quel caso di tralci ritorti, ma poi anche di panni stesi al sole, o di ruote di bicicletta disegnate con virtuosistica maestria prospettica, come fossero tarsie rinascimentali, o di cimase di tetti sforbiciate su cieli tersi, o di stipiti d'ingresso di giardino culminanti in vasi fittili toscani - (tavv. 11, 12, 22 e 23), in quegli ingrandimenti, dicevo, notavo i riverberi formali, sia pur remoti, ma comunque da indagare, delle immagini pop americane. E subito, a scanso d'equivoci, mettevo in chiaro - senza però meglio precisarla - la distanza ideologica che separava l'ottica di Cacciarini da quella dei pittori d'oltreoceano.

Ora che lo spazio lo consente non si potrà fare a meno di ragionarne, ribadendo immediatamente che si tratta tutt'al più d'una suggestione formale esercitata sull'artista da un'avanguardia che pur sempre puntava sulla rappresentazione fedele, ancorché caricata, del dato naturale; così come, tutto sommato, era occorso al giovane Cacciarini, educato all'arte da Pietro Annigoni, che della figurazione naturalistica è stato indubbiamente uno degli assertori più convinti. Certo - e questo è il punto su cui insistere - le premesse culturali della pop-art, con la sua ambigua denuncia, così eclatante da sconfinare in un'esaltazione financo masochistica dei feticci contemporanei, a volte tanto più celebrati quanto più volgari, sono assolutamente estranee alla natura di Cacciarini; che tuttavia rivela una quasi inevitabile (per uno della sua generazione) attrattiva nei riguardi di quell'esperienza americana, soprattutto quando nelle incisioni mette a fuoco e dilata talora un brano di natura - com'è nel caso, già evocato, dei tralci di vite, quasi scarnificati da un'ispezione con tecnica microscopica -, talaltra il dettaglio di manufatti antiquati - com'accade nelle riprese da vicino di serrature rugginose di cancelli, di docce metalliche che scendono per muri d'intonaco sbreccato, (tav. 10) di spigoli rabescati d'inferriate (tav. 5) - ingranditi fino al rischio di farne feticci, e invece lenticolarmente indagati per quello ch'essi figurano nell'animo: segni del transito d'una presenza, d'un momento fuggito, del tempo che corre e lascia solo tracce nella memoria e nei sentimenti.

Sono proprio le memorie delle cose, i sentimenti che seguitano ad accompagnarle nonostante l'abbandono, o che anzi forse proprio per l'abbandono crescono e s'intrecciano in un viluppo struggente, i connotati culturali della poesia di Cacciarini; lontani mille miglia - come si vede - dalla matrice ideologica della pop-art americana (anche se poi confesso che un vago struggimento oggi mi prende alla vista, per esempio, delle molli sculture di Oldenburg , delle icone sgargianti di Lichtenstein, dei ritratti seriali di Warhol; ma lo registro fra parentesi perché si tratta probabilmente d'una reazione di melanconia personale, ed è da presumere che non fosse in origine neppure desiderata).

Eppure continuo a credere che su Cacciarini un qualche fascino quell'esperienza l'abbia esercitato. Ne traggo rinnovato conforto guardando adesso le bicromie squillanti e talora stridenti (verdechiaro/ viola, rossacceso/ verdesalvia, giallocanarino/ marrone, verdescuro/azzurro) su cui campeggiano coppie d'oggetti, totem meccanici, esibiti nella loro corrusca, metallica nobiltà: di tutte queste tavole, che fanno ciclo a sé pur all'interno d'una continuità tematica, rammento quella con una bombola spray e una stufa a gas posate su un astratto piano grigio e contro un fondo giallo compatto: visione lucida, che davvero non saprei dire se faccia prevalere nel mio apprezzamento suggestioni di un' eleganza 'stile impero' o reminiscenze d'immoti idoli metafisici o, giustappunto, allusioni a immagini e colori d'una pittura di là dall'Atlantico.

E tuttavia questo ciclo credo sia solo un episodio, una variante che non riguarda la poetica, ma lo sperimentalismo cromatico, un gioco d'ambientazione che lascia immutata la sostanza. E la sostanza sta - come poc'anzi si provava a definire - nel rapporto del tutto personale che s'instaura fra l'uomo e gli oggetti, coi sentimenti ch'essi serbano.

Se invece dovessi dire d'un ascendente - quantunque assai filtrato - che io sento ammissibile per l'espressione di Cacciarini, mi verrebbe di pensare piuttosto alle opere di quegli artisti che in Italia sul finire degli anni Quaranta dettero vita al gruppo dei "Pittori moderni della realtà", un episodio di breve durata ma significativo, e comunque meritevole d'essere ricordato più di quanto non avvenga a ragione di prevenzioni - in verità non tutte immotivato - che mi paiono riguardare soprattutto Gregorio Sciltian e Pietro Annigoni, gli esponenti più in vista di quel giro.

Sarà - credo - utile riconsiderare quei dipinti, percorsi da una vena poetica domestica e nel contempo nobile, per quel suo rimontare alla più aulica tradizione del Quattro e' Cinquecento. E perché la notazione non paia generica - come per solito capita quando si parla delle radici dell'arte figurativa della prima metà del Novecento italiano, che si trova sempre il verso di far attecchire nella terra fertile del Rinascimento - invito a rimeditare sui due straordinari piccoli Autoritratti (oggi agli Uffizi) di Antonio e Xavier Bueno, due tavolette (una del 1946, l'altra del 1947) che s'innestano quasi senza mediazioni sul filone della ritrattistica nordica o del nostro Antonello.

Nelle 'nature morte' di quegli artisti (specie di Antonio Bueno) ritrovo talora i germi dell'espressione di Cacciarini, ch'è però così originale da far apparire perfino casuale il suo apprendistato proprio con Annigoni, che fu tra i fondatori di quel gruppo, nato negli anni della polemica più spinta fra "realismo" e "astrattismo". Una polemica che, com'è noto, travalicò i confini della critica d'arte e dell'estetica per invadere i territori della politica, andando lì a seminar zizzania anche fra amici e compagni; ma che oggi - ammesso che ancora qualcuno l'avverta - si risolve tutt'al più nell'intimo della coscienza individuale. Non son più tempi, questi che viviamo - ma lo dico con amarezza, e volgendo lo sguardo a tutto campo - di dialettiche o dibattiti culturali (questi stessi termini d'altronde sono venuti in uggia per l'abuso sconsiderato che se n'è fatto in anni passati). E poi credo che la questione non sarebbe comunque ricaduta fra gl'interessi intellettuali di Cacciarini, per via della sua disposizione ad appartarsi, a concentrarsi morandianamente sulla sua poesia e sui pretesti visivi per esprimerla compiutamente.

In questo, sento la linea netta di discrimine da Annigoni, del quale pure si deve tener conto; e non solo per la padronanza della tecnica che il maestro ha trasmesso all'allievo, ma anche almeno per averlo con l'esempio della sua pittura rincuorato e stimolato a proseguire la sua ricerca nell'ambito della figurazione naturalistica, in un'epoca di sperimentazione accesa. Ma da Annigoni, Cacciarini - uomo oltre tutto d'altra generazione - non ha assunto quella sorta d'emulazione degli artisti antichi, portata fino allo stremo d'un eroico gareggiamento; non ha inteso caricare d'allegorie i suoi oggetti, le sue vedute, le sue figure; la sua poesia non aspira all'epica, semmai è più vicina alla concisa purezza degli epigrammi. I suoi tempi sono quelli lunghi di chi si ferma sui dettagli delle cose e ancora se ne stupisce; di chi sa apprezzare il lento mutare della luce naturale, che abbacina talora (tav. 13), e talaltra serenamente trascorre estenuando le ombre (tav. 15); di chi profitta dei silenzi per sentire il segreto pulsare della natura e accostarsi al mistero delle vicende d'oggetti e di luoghi dimenticati.

C'è un film che mi torna sovente alla memoria davanti a un'opera di Cacciarini; è Thérèse di Alain Cavalier: le ceramiche bianche posate su tavoli coperti da tovaglie di lino appena orlate; la luce filtrata da garze leggere calate sui vetri di piccole finestre; il silenzio assoluto di povere stanze claustrali. E la macchina da presa che su tutto indugia con occhio commosso: ognora rinnovando la meraviglia d'una scoperta.

agosto 1984

Poscritto. Torno allo studio di Cacciarini in un mattino caldo d'inizio autunno. Resta da definire la scelta delle incisioni da esporre qui a Pistoia. Mentre cammino per borgo degli Albizi rimetto insieme le idee che hanno informato le pagine buttate giù per questo catalogo, e cerco di organizzarle in funzione della mia proposta per un' antologia di stampe che già so bene risulterà necessariamente fin troppo stringata in confronto alla produzione grafica di lui.

Entro e sùbito mi s'apre la visione di una grande tela - là in alto, sopra un'allineata teoria di vecchie Underwood nere - con tre nudi maschili e alcuni oggetti dei soliti. Immediata è la percezione di uno scatto, di un salto che sento perfino brusco rispetto a consimili precedenti lavori, ma che del pari avverto come la possibile soluzione di quella disparità o addirittura incongruenza che nel saggio avevo dichiarato di scorgere nell'accostamento fra l'uomo e le cose. Mi accorgo che finalmente la figura s'è riscattata, ha ricuperato come per effetto d'un lavacro battesimale la sua dignità; e, divenuta consapevole della sua nobile purezza, tiene un passo altero, regge senza trepidi ripiegamenti il confronto con la lucida, impassibile presenza delle macchine, che ora anzi, al cospetto di tanta fierezza, quasi si convertono nell'armamentario, appena brunito, d'antichi guerrieri in attesa dello scontro.

Per un attimo volgo lo sguardo altrove, come per cercare nella memoria di storico una fonte che ho fiutato, ma che pure intuisco assunta con libertà. Cacciarini mi passa allora la foto d'un particolare della tela di Velàzquez coi Fratelli di Giuseppe, confermando la mia congettura di un'ispirazione aulica ancorché assai decantata: l'accenno d'una classica postura, la sospensione degli affetti o, per converso, il piglio risoluto, la costruzione insieme salda e armonica, il ritmo solenne, e poi quella luce che piove a fascio, e illumina i corpi, i panni, i metalli, studiata con la sensibilità d'un caravaggesco anomalo, formatosi piuttosto alla scuola di Derek Jarman.

La rivelazione da parte di Cacciarini dello spunto figurativo non basta però a chiarirmi la mutata relazione tra la figura e gli oggetti. Sicché per darmene ragione, mi sforzo coi ricordi di tornare a una tela precedente, del pari assortita quanto a protagonisti, che mi serva di confronto. E si fa strada l'idea che il rinnovato rapporto fra le cose e i corpi sorta da una meno polita maniera di dipingere quest'ultimi; che, liberati dall'obbligo oneroso di competere - in una lotta peraltro impari - con la forbitezza di oggetti meccanici perfettamente costruiti, ritrovano nella loro incompiuta bellezza la fragilità' e nel contempo il vigore della natura umana.

Mi accosto alla scena e trovo nelle figure appunto una pittura meno definita, evanescente talora, talaltra sfibrata nei tessuti della cute. Il nudo di spalle, ben piantato sulle gambe, la testa un po' reclinata - inusuale autoritratto da tergo -, dà già la misura monumentale della storia. Il piede sfilacciato eppure saldo; come quello del Deposto bellissimo di Boston dipinto da Rosso Fiorentino. Del quale verrebbe di pensare che Cacciarini abbia pei suoi nudi rivisitato l'ampio torso, ch'è pateticamente bilanciato come il mutilo marmo Gaddi degli Uffizi. E, una volta evocato, il nome del Rosso resta impresso; e a lui la memoria torna quando dalla penombra del fondo affiora, sulla destra, la scala a pioli, vera e propria citazione (magari non letterale, ma certo culturale) dal geometrico intrico prospettico di legni della pala volterrana; a cui mi riesce difficile ora non accostare la cromia di quei panni che nell'opera moderna calano fino al pavimento: tinte forti, ma stese come lievi velature, sì da rammentare che anche a Volterra i colori son dati sulla tavola con mano leggera, fino al segno di lasciar trasparire, di sotto, la bella grafia antica che, di mano del Rosso in persona, annota la tonalità cromatica prescelta.

Mostra al palazzo Comunale di Pistoia

Giovanna Uzzani - 1994

LEGITTIMITÀ DI RICERCA

A rileggere le pagine numerose, sovente aspre, che dal secondo Dopoguerra ad oggi hanno alimentato il dibattito artistico a Firenze, vedendo contrapposte più generazioni, alcune in particolare mi sono rimaste impresse: penso a quel lucido accorato consuntivo spirituale che Alessandro Parronchi volle chiamare nel 1964, Pregiudizi e Libertà dell'arte moderna, qui raccogliendo le testimonianze critiche ed elzeviri prodotti nel ventennio seguito alla fine del conflitto. Per gli uomini che si erano formati intellettualmente nell'anteguerra e che attendevano ora di raccogliere i frutti di una promessa quanto sofferta maturità il ricordo di quell'aprile di luce, datato 1945, porta ancora con sé l'impressione incancellabile e lo stordimento di tante voci eccitate, il primo sole "senza sbarre" che diluviava sulle ferite, palpiti di vita che resuscita, "caldo di sangue alle gote, caldo di lacrime alle ciglia trafitte dal sole". "Noi aspettavamo proprio questo momento [ ... ] Venga il tempo del buon lavoro silenzioso - ossigeno che ricrea - vengano davvero anni in cui non si possa isolare una trovata che fa scalpore, e le campane del nostro campanile suonino imprevedute a segnare le date delle realizzazioni segrete, le ore che contano della nostra vita spirituale".  '

A queste attese seguirono le molte disillusioni, e non da una soltanto delle parti in contesa. Il detrattore dell'astrattismo in tutte le sue possibili declinazioni, che assiste attonito al "futuro d' Apocalisse" annunciato dai tempi e in particolare, nella più recente delle manifestazioni, dall'avvento della Pop Art, introduce appunto Pregiudizi e libertà con inflessioni malinconiche e con una punta di confessa amarezza: "Pure qualcosa è maturato, qualcosa sempre matura con gli anni. Un senso comune di irreparabile, il senso che le cose si siano spinte oltre [ ... ] Può darsi che questa impressione derivi dal fatto che non sono riuscito ad aggiornarmi, e sono rimasto vittima della mia età ... Si cercherà di non sfuggire al dovere di vivere in comune le nostre ansie e di corroborare attentamente le nostre possibilità di resistenza" . E introducendo il concetto di "resistenza" egli lasciava chiaramente intuire la propria appartenenza ad un nucleo di intelligenze ritenute superate o inadatte all'incalzare delle situazioni.

Altrove il dibattito sfuggiva all'altezza della riflessione ed eludeva la posta in gioco: così, introducendo il Fiorino del 1954, Nicola Lisi si esprimeva contro l'ormai diffusa opinione che Firenze stesse soffrendo di un arresto del suo slancio creativo e ricordava con tono asseverativo quanto "la fedeltà della gente toscana ad una realtà eterna" fosse inconciliabile con più effimere convinzioni, dunque condannate e ritenute senza appello "in opposizione all'arte". Era battaglia. Sulle colonne dei periodici la querelle si animava tra le opposte fazioni, raggiungendo punte di reciproca intemperanza.

Laddove Milano, Roma, Torino si orientavano verso la sperimentazione di linguaggi nuovi, sostenuti da un mercato agguerrito e da un collezionismo intraprendente e spregiudicato, Firenze rispondeva dal 1950 con iniziative pur propositive quali appunto l'istituzione del Premio Fiorino, che intendeva lodevolmente favorire i rapporti tra artisti di varia formazione e provenienza con il ceto produttivo, in memoria ed omaggio dell'illuminato mecenatismo rinascimentale, come manifestava il titolo stesso dell'iniziativa. Eppure i giovani, sebbene invitati, non mancavano di denunciare il ruolo privilegiato che, naturalmente, come un fiume che torni a scorrere nel suo letto, veniva riservato ai campioni delle ricerche figurative dell'anteguerra, i vari Casorati, Rosai, Vagnetti, Conti, De Pisis, Guidi, Menzio, regolarmente premiati. E il gruppo Arte d'Oggi, in una lettera aperta al "Nuovo Corriere" denunciava il carattere degli intenti dell'Unione Fiorentina - l'Ente patrocinatore del Fiorino - nata per "la difesa della fiorentinità : e qui si interrogava quale fosse la fiorentinità da difendere e "da quale marasma di provinciali ambizioni e di velleità di negazione fosse espresso questo non peregrino concetto.

Passano gli anni, ma il dibattito non si spegne: è il 1963, quando Lara Vinca Masini, incaricata di organizzare un' edizione rinnovata del Fiorino, rileva amaramente in catalogo le difficoltà incontrate per tale realizzazione e punta il dito contro "la condizione di chiusura che ha investito la vita culturale e artistica fiorentina, al punto da relegare in isolamenti improduttivi le capacità più genuine e le forze più vitali, e da escludere la presenza fiorentina dalle manifestazioni a carattere nazionale". Le edizioni del 1963 e del 1964 del Fiorino sembrano comunque portare le avvisaglie di una apertura alle giovani ricerche, sia quelle di indirizzo figurativo che quelle di ricerca astratta: così nel 1963 il Premio viene attribuito a Vinicio Berti, mentre altri premi vengono assegnati a Gualtiero Nativi, Giulio Turcato, Fernando Farulli, Giuseppe Romagnoni, Silvio Loffredo: nel 1964, il premio viene vinto da Farulli, mentre per la scultura, ora accolta dalla manifestazione, è premiato Venturino Venturi.

È comunque il corso di questi anni Sessanta e, subito dopo, quello dei Settanta che vede nascere e polarizzarsi nel contesto culturale della città l'opposizione di almeno due schieramenti: l'uno più dichiaratamente esposto ai confronti con le innovazioni linguistiche che si vanno affermando nel territorio nazionale e internazionale, l'altro che pone le ragioni della ricerca oltre il dibattito.

Sullo sfondo anche le posizioni della critica delineano precise contrapposizioni: "Ho avuto la rara fortuna di familiarizzarmi con l'arte francese, inglese e americana, e d'intendere che l'arte moderna non si comprende se non sopra un piano internazionale", esordisce Lionello Venturi nel suo volume del 1956 L'arte moderna. All'unisono con Longhi, Venturi già da tempo aveva individuato e promosso una lettura filofrancese, a suo vedere ineludibile per la comprensione dell'arte contemporanea, come poneva in evidenza già la prima Biennale del Dopoguerra, intesa come inedito grande omaggio italiano all'impressionismo. Se per le giovani leve della critica l'insegnamento longhiano poteva dunque fornire alcuni spunti del rinnovamento in atto, è curioso verificare che, su posizioni assai divergenti Alessandro Parronchi, pubblicando nel 1958 il suo Artisti toscani del primo Novecento individui pure nello stesso Longhi la guida intellettuale per un'operazione ben diversa: raccogliendo infatti di Longhi eminentemente il criterio metodologico e i presupposti di un'analisi, Parronchi si propone l'obbiettivo di affrontare sì un vasto movimento, ma nel riflesso geograficamente e storicamente limitato che esso ebbe sulla coscienza di alcune personalità, originali e singolarmente dotate, talvolta emarginate o appartate per vocazione, in una dichiarata "mania di ricostruzione di un passato prossimo strettamente locale", dunque eleggendo a poetica la propria scelta critica di un orizzontale racchiuso, non per questo meno alto.

Le osservazioni qui anticipate non valgano come mera protostoria di una questione irrisolta: il soggetto del dibattito presente è infatti offerto dalla ricerca pittorica di Gianni Cacciarini, opera dotata di un proprio percorso e di una inconfutabile autonomia di espressione, nel solco di una tradizione pienamente figurativa, manifestatasi fra i Sessanta e i Settanta fino ad oggi: al fianco di questa, altre vicende parallele si sono collocate vitalmente in Toscana, a Firenze in particolare, e dopo un periodo di cauta curiosità verso le tendenze pop e informali, esse hanno individuato altre possibilità di espressione, in deliberata astensione dalla dialettica delle avanguardie e in fiera quanto dignitosa alternativa alla sperimentazione dei linguaggi, per una umanistica e appartata ricerca figurativa, sino dagli anni Sessanta la pittura di Mario Fallani, di Piero Vignozzi, successivamente di Rodolfo Ceccotti, di Renzo Dotti, e appunto di Gianni Cacciarini ha trovato collezionisti e mentori nella stretta cerchia di poeti e letterati vicini all'ambito delle gallerie fiorentine Pananti, Menghelli, Santa Croce, l'Indiano o grazie all'interesse di storici di formazione ragghiantiana, o ancora nell'ambito di vari cenacoli universitari fiorentini e pisani. Se si intende dunque verificare le origini della legittimazione critica di una colta tradizione figurativa, che a Firenze trova una propria dimensione di ricerca con altezza di esiti, malgrado l'evidente contrasto con altri indirizzi, ritengo sia opportuno abbandonare il presupposto che il concetto di avanguardia costituisca un valore assoluto, dal momento che esso stesso pone come unica condizione la fedeltà al criterio rigoroso della ricerca, non presupponendo al contrario che le forme e i linguaggi siano necessariamente astratti o informali o concettuali o comunque non figurativi.

A tale presupposto critico non si ispirano soltanto intellettuali e studiosi come Parronchi, vieppiù legati affettivamente alla generazione dei maestri che avevano segnato la storia dell'arte italiana novecentesca, ma anche critici di punta che nel Dopoguerra avevano espresso valori significativi, promuovendo coraggiosamente le nuove ricerche giovanili. Fra questi penso soprattutto a Ragghianti, che tanto ha investito nella cultura fiorentina, aprendo il dibattito ben oltre i confini strettamente locali. Fra le molte pagine ragghiantiane che potremmo agevolmente addurre ad esempio, valga quel fascicolo speciale di «Sele Arte», datato ottobre-dicembrc 1960, pensato come "esperimento di ricapitolazione visiva della produzione artistica italiana all'anno 1960", dove si raccolgono e riproducono "opere di ogni gcnere e ragione, al di fuori di ogni diaframma o divisione convenzionale", postillati, in appendice, da una giustificazione critica che suona come vera e propria dichiarazione programmatica. L'apertura di Ragghianti alla comprensione di espressioni artistiche eterogenee, evidente nell'acquisizione delle immagini di una varietà oltremodo attraente, pur nel contesto di un'impaginazione povera e dimessa - come richiedevano le condizioni di un Dopoguerra ancora scarso di risorse -, più esplicitamente si verifica nella giustificazione critica che le accompagna. Qui Ragghianti invita alla considerazione dell'opera d'arte oltre le convenzionali individuazioni per categorie come "astratto", "figurativo": anzi si sofferrna con gusto a premiare in opere, le più astratte che si possa intendere, quei caratteri umanistici e di ricerca che pongono il soggetto fuori dalle parti in contesa. Così riferendosi ai campioni dell'astrattismo internazionale, e in particolare ai Mondrian della piena maturità, si incanta a rintracciarne i debiti e le "ripetizioni indubbiamente consapevoli di antiche proporzionali e ritmiche che derivano dalla cultura ellenica" o dai parametri parietali nipponici dei secoli diciassettesimo e diciottesimo (ma avverte: anch'essi reviviscenze di modelli occidentali già diffusi in Giappone): e per un altro protagonista accreditato del nuovo linguaggio internazionale quale Calder si ingegna a rintracciare i debiti che i suoi mobiles accolgono dai flabelli egizi mobili, dagli automi greci, ellenistici, arabi e da tutti quegli antichi fenomeni di ricerca della visione integrata col movimento, Ragghianti vuole così invalidare la pregiudiziale critica per la quale le forme astratte o non figurali siano di esclusiva attualità e che comunque siano polari, opposte, incomunicanti, irriducibi rispetto a quelle figurative. A suo vedere il ruolo della storiografia e della critica ha il compito di indurre a letture differenziate di tali fenomeni, attraverso l'analisi dei processi espressivi e in relazione alle evoluzioni del pensiero, insomma nel rispetto della storia stessa e della sua relatività. Oltre queste indicazioni non ci possono essere che faziosità illegittime, antagonismi, equivoci, arbitrii, cecità, precarietà, e tutt'altro che implicitamente Ragghianti scaglia i suoi dardi ai contrappositori convinti di "'astratto" e "figurativo".

Le barricate di storica memoria, fino al presente, dividono come uno spartiacque quelle voci che credono nella legittimità dei valori della pittura in senso tradizionale ed altre che, puntando sulla sperimentazione dei linguaggi, mettono variamente in scena vocazioni alla concettualità, al minimalismo, all'internazionalità dell'espressione, allo 'stile'.

Sono trascorsi pochi mesi da quando uno fra gli artisti interpreti di questa seconda schiera dei detrattori confessi della tradizione novecentesca, Paolo Masi, mi parlava con rimpianto di quale sia stata la lezione, pur dura, inflitta dagli anni Ottanta e dal diffuso ritorno alla pittura, alla generazione che, nata all'arte dopo la seconda guerra, aveva investito nella sperimentazione, aveva puntato sulla ricerca artistica come espressione di un impegno ideologico, aveva infine cercato oltre i confini nazionali le ragioni e le conferme della ricerca: "credevamo nella verticalità del processo della ricerca artistica, e nella necessità di assecondarla: credevamo che fosse indispensabile un costante inesausto superamento delle posizioni precedenti, presto mortificate e bruciate dal nuovo; e credevamo che a giustificazione di questo processo sovrintendessero le ragioni di un sempre giovane modernismo, da contestualizzare scrupolosamente con gli occhi affondati nell'orizzonte dei raggiungimenti internazionali". Per questa generazione la Biennale del 1980 d'un tratto invalidava ogni assunto programmatico, mostrando con le preposizioni della Transavanguardia e del ritorno alla pittura, quanto invece fosse accattivante l'ipotesi di un'orizzontalità dei linguaggi, tutti al contempo presenti, tutti possibili, metastoricamente attuali, vie parallele e praticabili della coscienza del presente.

Si parla nuovamente di pittura e di tradizione, ma ancora siamo lontani dal fuoco del nostro dibattere: basti provare ad accostare in una stessa pagina, dedicata alle ricerche figurative, un dipinto di Cacciarini o di Vignozzi o di Ceccotti o di Fallani o di Dotti ad un altro, magari esattamente contemporaneo di Barni o Bonechi o Salvo o Ontani per vedere come siano reciprocamente repellenti; tanto più se appesi ad una stessa immaginaria parete. Non stanno vicini, si elidono, pur trattando una comune materia figurativa: la differenza credo sia riposta nell'attenzione di segno ben differente che i vari artisti dedicano al problema, della lingua e dello stile, per certuni essendo questo il problema centrale, per altri un problema indotto, comunque successivo rispetto all'urgenza del racconto o della suggestione da rappresentare. 

Non ritengo sia questo il momento per chi scrive di anteporre gli uni agli altri, alzando nuove o vecchie pregiudiziali, tanto più se in riferimento ad artisti di cui si apprezza e segue lo studio. Mi piace invece concludere ricordando uno dei collezionisti più fedeli di Gianni e di altri artisti qui ricordati che, seppure in sede di dibattito letterario, invita in uno dei suoi saggi più accattivanti ad accettare come forza il limite della nostra parzialità: "Insomma saremo noi a scegliere gli scrittori e i testi o saranno loro a scegliere noi".

Mostra al palazzo Comunale di Pistoia

Laura Lombardi - 1994

GIANNI CACCIARINI

Prima di dedicarsi alla pittura Gianni Cacciarini pensava di fare l'architetto; ma a quel lavoro egli consacra soprattutto i primi anni dopo la laurea (suoi, ad esempio, i progetti della chiesa di Santa Maria Madre della Chiesa a Pisa e per l'altare della cappella Castellani in Santa Croce, inaugurato nel 1973), senza tuttavia mai rinnegare quella formazione che riterrà anzi importante per la sua poetica d'artista. Così, già ai tempi in cui frequenta l'università di Firenze - città dove è nato - seguendo con particolare interesse i corsi di Leonardo Benevolo, Cacciarini apprende l'incisione dall'amico Wairo Mongatti, allievo di Morandi, indirizzato ed incoraggiato anche da Roberto Coppini, che lo presenterà poi, qualche anno dopo, a Pietro Annigoni. A quel tempo dipinge anche grandi pannelli, con particolari ingranditi dalle scene delle Battaglie di Paolo Uccello - "quasi un lavoro da architetto"  come lui stesso li definisce -: con questi vince nel 1972 una borsa di studio per i giovani artisti del Comune di Firenze. Ma, per tutto il decennio, Cacciarini preferirà approfondire l'incisione, prima di tornare alla pittura con modi e temi assai diversi.

Del 1973 è la cartella di sei incisioni - Le viti - presentata nella galleria dell'antiquario Giovanni Conti, dove si svolge il primo contatto dell'artista col pubblico. Immagini che "non ammettono mediatori" essendo di per sé una "compiuta realtà di linguaggio", osserverà Luigi Baldacci nel testo che accompagna la raccolta; ma a voler commentare quei 'fili di ferro, giunchi, legacci che stringono o tralci addormentati nell'inerzia invernale e legni impassibili politi come antiche selci", si potrà evocare la loro drammaticità che suggerisce "una forma contenuta e compressa, il senso d'una prigionia provvisoria". Baldacci vi scorge inoltre "tante possibilità, tanta ricchezza di colore nella suggestione tattile delle superfici" e loda il saper far "opera novissima e modernissima (nell'impaginazione degli oggetti, nell'ossessivo fuoco dell' obbiettivo) affidando all'artigiana esperienza della mano la prima responsabilità del fatto artistico". Queste doti saranno anche apprezzate da Pietro Annigoni che, nel 1976, presenta un'altra raccolta di Cacciarini, edita da "Il Torchio" di Milano, Le fabbriche: incisioni la cui "tecnica esemplare non lascia margine a incidenti di acido o sorprese di stampa", dove "edifici derelitti, muti di amara sorpresa", "sembran quasi sospendere il processo di sfaldamento ed arrestarsi fuori dal tempo in un'atmosfera limpida per dar modo di ricordare, di rimpiangere, di porci domande". Gianni, contemplando quelle strutture, si dice suggestionato, in un tempo di produzione di massa in cui "l'uomo non può più identificarsi col proprio lavoro", dal loro apparire "come vecchi utensili in disuso", da "quel senso di cosa abbandonata, dal "bilanciarsi sottile di presenza-assenza".

All'attività di incisore per la quale ottiene i primi riconoscimenti (nel 1974 vince il premio della critica e dei grafici iugoslavi alla IV Biennale Internazionale della Grafica di palazzo Strozzi, nel 1976 è segnalato da Renzo Biasion per il catalogo Bolaffi della grafica e, da quell'anno, figura nel catalogo della galleria antiquaria Prandi di Reggio Emilia), Cacciarini accosta ora lo studio della pittura, sotto la guida di Annigoni, che lo esorta a cimentarsi proprio scorgendo le possibilità insite nel bianco e nero, già rilevate da Baldacci. "E' stato Annigoni a persuadermi - ricorda Gianni del suo maestro - avvicinandosi in modo discreto e affettuoso, mi ha aiutato a esprimere quel che avevo intuito dentro di me; con grande sensibilità, non ha mai interferito nelle mie scelte"; così, tutt'oggi, Cacciarini è solito dipingere, la mattina, alcune ore nello studio di Annigoni, a pochi passi dal suo proprio, non per sentimentalismo, ma perché quei luoghi ancora lo ispirano, lo dispongono alla concentrazione.

Sarà Maria Pia Gonnelli, nel gennaio del 1978, ad offrire a Cacciarini la prima occasione di esporre le incisioni in una personale alla Libreria Antiquaria: oltre alle Viti e alle Fabbriche, si trovano le prime nature morte e vedute urbane, scorci di muri di Firenze, ed il catalogo accoglie i testi di Baldacci, Annigoni e Cacciarini, già ricordati. Egli partecipa inoltre alla IV Rassegna della grafica di Forlì (organizzata dal centro Internazionale della Grafica di Venezia) e alla Biennale nazionale di Arte Figurativa di Imola e, nel novembre, espone alla galleria "La Papessa" di Roma.

Nello stesso anno la grafica di Cacciarini figura alla mostra newyorkese New talent in Printmaking, della Associated American Artists, che già da qualche tempo acquistava sue tirature: e la sua opera piacerà molto al collezionista John Rosenwald che, in seguito, chiamerà l'artista per scegliere gran parte dei suoi lavori(ora nelle collezioni della National Gallery di Washington).  L'esperienza figurativa americana ha d'altronde un certo rilievo nella formazione di Gianni; infatti, oltre a prendere lezioni dall'incisore Denis Olzen, egli è assai influenzato dalla pop-art: un riferimento che trapelerà molto anche nei dipinti. Natali, nel catalogo del 1988 Dieci anni di acquisizioni del Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi (le prime incisioni di Cacciarini furono acquistate nel 1978), osserva che, sebbene la pop-art possa apparire estranea, nel suo carattere dirompente e clamoroso, alla natura intima del nostro, all'eleganza austera e alla discrezione espressiva delle sue opere, "certi ingrandimenti improvvisi sugli oggetti quotidiani l'insistita precisione delle scritte di marche industriali, l'accostamento di cose familiari cariche di oggetti alla volgarità di simboli consumistici", hanno la loro matrice formale, per ammissione deÌlo stesso Cacciarini, proprio in quegli esempi d'arte americana. Ma l'interesse per l'arte contemporanea, anche inglese (specie per Bacon, Freud e Hockney) convive sempre con il colloquio costante con antichi maestri, tra cui i prediletti sono Pontormo, Rosso, Rembrandt, Caravaggio, Velasquez,Vermeer, Chardin, Turner, Ingres.

Dal viaggio in Inghilterra nel 1978, compiuto insieme all'amico Roberto Coppini, nasce la Suite inglese, composta da poesie di Coppini e da quattro acqueforti del Nostro, che non "illustrano" le poesie di Coppini (sono infatti assenti i paesaggi descritti da quest'ultimo), ma, per via analogica, esplorano un mondo immobile di oggetti, di piccole cose ov'è l'essenza di gusto inglese: fiori di carta e di vetro, paralumi leggeri e pesanti, trombe di vecchi fonografi, ferri battuti e calamai di cristallo, che Sisi assimilerà (nel 1989) agli "scandali sottomarini di Odilon Redon". Per la presentazione di quell'opera raffinata, edita dalla stamperia "Il Bisonte", Maria Luigia Guaita allestisce anche, nel gennaio del 1979, una personale di Cacciarini. Renzo Federici nel recensire la mostra su "Paese sera", osserva come, nella discesa alle minuzie, in quella luce d'alchimia, tra i relitti del nostro armeggiare, i frammenti di architetture o gli squarci di vecchi muri "le cose lentamente acquistano una magia insospettata", senza che intervenga nulla di esorbitante poiché "è la stessa tensione febbrile che le tramuta in alcunché di ricco e strano, di sommerso, velato di sorde ed insieme soavi risonanze"; così, nel dialogo tra quegli oggetti, che Cacciarini con discreta regia orchestra, nei rapporti "fitti di ammicchi pur nella quiete ormai definitiva", paiono svolgersi "drammi a cadenza lentissima" .

Nel 1980 giunge il momento della prima mostra di pittura, allestita alla Galleria Vallardi di La Spezia: quasi una sorta di "prova generale", dell'esposizione alla Galleria L'indiano di Paolo Marini a Firenze, che, anche nel ricordo di Gianni, fu la prima importante verifica del suo lavoro. Tuttora fondamentale per intendere la poetica di Cacciarini resta lo scritto introduttivo al catalogo di Carlo Ludovico Ragghianti, dove si dissipa sul nascere l'equivoco del trompe-l'oeil che avrebbe potuto attribuirsi a quelle, opere se considerate con sguardo distratto, o non colto: è assente infatti "la casualità o l'insignificanza o la banalità compositiva del trompe-l'oeil, poiché quelle nature morte sono composte in "organismi propriamente architettonici", e dunque, secondo l'esempio di Chardin o Morandi, "non oggetti, ma panorami di edifici di misura palmare" dove "una disciplina rigorosa e limpida investe ogni parvenza e la immobilizza, la cristallizza". Così come Gozzano - osserva ancora Ragghianti - nelle 'buone cose di pessimo gusto' aveva coniato per sempre una situazione della vita e del costume borghese ottocentesco. Cacciarini, salvo rare eccezioni (la zuppiera, l'orsa in porcellana) "ha collezionato una serie di oggetti dichiaratamente funzionali e professionali", "una materia di natura morta industriale, con le macchine da scrivere Underwood, la cucitrice di scarpe Stoccarda, gli abat-jour in vetro e metallo regolabili, la fiamma ossidrica, i ventilatori Marelli, i riscaldatori, i cacciaviti, le bottiglie e bottigliette di inchiostri e di birra, di olii e di acidi, i telefoni, i libri, i registri, i calamai di cristallo tagliato, gli astucci, le lampadine, le matite, le penne". E di quegli utensili tende "nella consuetudine immemore" a far dimenticare allo spettatore "le proprietà funzionali e strumentali, la loro destinazione e contingenza": allora, "le cose singole e associate non solo vengono presentate come essiccate collezioni, ma trasferite in una sorta di imbalsamazione che sconfina in un'archeologia remota, un presente o un prossimo passato già leggendario". Poi, notando quanto "nella loro stereometria implacabile, gli oggetti si animino di una vera e propria esaltazione luminosa che si riconduce scientemente alle proiezioni e alle ellissi caravaggesche" Ragghianti insiste sull'accendersi della tensione fino al culmine d'una "catarsi formale non turbata". Dal reale Cacciarini ci trasporta così vicino all'allucinazione, "nel visionario che emerge dal quotidiano" e, similmente alle incisioni, anche in quelle tempere grasse si opera "la trasfigurazione di un reale oggettivo, ma non qualunque, in una visione rasserenata e dominante che si determina in forme assorte, quiete e stabili, e in composizioni anche complesse nell' apparente semplicità, metricamente misurate e stanziate come edifici illuminati nella vampa dell'ultima sera". Gli scenari che Gianni crea con gli oggetti vivono delle atmosfere di luoghi che furono altamente evocativi: l'ufficio di suo nonno, Tobia Cacciarini, tipografo, simile nell'immaginazione alla stanza del detective di Chicago degli anni Trenta - un riferimento al cinema, per lui così importante -;o i meandri del laboratorio, dove si aggirava tra tagliacarte affilati come ghigliottine, cucitrici dentate, barattoli di colla, rifollatrici, riverratrici, presse, punzonatrici": strumenti del lavoro quotidiano che divenivano, ai suoi occhi di bambino, mostri animati e inquietanti, e proiettavano le loro ombre minacciose nei grandi saloni del palazzo Visacci. Oggetti che egli desidera ora conoscere, dipingere, possedere, studiare, per esorcizzare "quell' antica riverenza o timore", destinandoli "a ricevere una sorta di investitura simbolica da parte della coscienza e dei sensi" (Cacciarini nel catalogo di Milano, 1994). In questa via egli muove verso approfondimenti ulteriori: così, nel 1982, espone nuovamente alla Galleria L'Indiano una serie di dipinti da cui scompaiono alcune caratteristiche solo "di studio" che erano ancora nelle composizioni precedenti. Più fiducioso, e forte anche dei riconoscimenti di Ragghianti, Cacciarini - che nel frattempo ha esposto all'estero, alla mostra "Art sans frontières" della Galerie Isy Brachot di Bruxelles e alla Galleria Brookhoven di Amsterdam - trasceglie alcuni elementi, e ne inserisce altri, per creare più movimento. Roberto Tassi, che presenta il catalogo, vi ammira la vitalità e la continuità, pur "in tempi perigliosi e poco favorevoli", della natura morta, la quale, più che un genere, pare essere un eterno modulo, un archetipo che abita nel profondo l'immaginario dell'uomo. Concorde con Ragghianti sull'assenza totale della maschera precaria del trompe-l'oeil, Tassi ricorda che già nella grafica Cacciarini aveva assunto alberi e architetture nella lor frammentarietà, isolati da un grande contesto, proprio per ricostruirli come nature morte a comporre un "preciso dramma". Messi "in rapporto di necessità e precisione, in uno spazio nitido e indefinito insieme", gli oggetti trovano ora nei quadri "un'esistenza notturna" ed un "rapporto, oltre che formale e compositivo, di senso, di presenza della funzione da cui sono stati distolti; un rapporto di contrasto e armonia perché diversa è la loro età e diversa è stata la lor precedente vita". Ed essi non suscitano ironia, anzi "acquistano una nuova bellezza, una magia che sembra destinarli ad altro più misterioso uso" [...]  "Non oggetti di antiquariato, ma piccoli, quasi sacri monumenti, patinati dal tocco di mani ormai morte, dal tempo, dalla luce, dal passato che in essi permane, ma anche sottratti a quel tempo, rigenerati in nuovi simboli, in nuove allusioni e fantasmi". Poi, accanto a quelli, altri oggetti di uso quotidiano, semplice: un porta lampada di vetro, occhiali, puntaspilli, nastri perché la "sospensione del tempo di oggi" si scontri e si confonda con la "resurrezione del tempo passato", suscitando in quella fusione "un atmosferadi malinconia" e di "sottilissima angoscia". (Sentimenti che Gianni non nega possano risultare riflessi del suo o del nostro inconscio, ma che egli non prova nel comporre e, nel dipingere: un atto sentito non come lo sfogo di interne inquietudini, ma come fonte inesauribile di "divertimento, gioia e amore per gli oggetti"). Nei dipinti esposti nel 1982, tra cui ad esempio La sfera, L'opalina azzurra o Copper boiler - un sottile sfumato invade la scena, facendo "traballare la certezza dell'interno", come se l'aria fosse anche atmosferica e venisse fatto di pensare ad un 'paesaggio' di natura morta'. Le macchine paiono arretrare arricchendo e rendendo più vago il fondo, mentre l'"oggetto attuale" rimane intatto nella sua "precisione olandese", da protagonista; infine la stoffa rosa rossa o bianca, "incandescente rivolo di luce" che Cacciarini pone a dividere o a mediare i due piani, rende la struttura più complessa, meno intoccabile, ed apre nuovi spiragli di meditazione. Tassi presenterà nuovamente l'opera di Cacciarini nel 1984, insieme a Roberto Coppini, in occasione della personale presso la Galleria Il Torchio di Modena. Nel 1982 Cacciarini espone alla galleria G. R. di Parma e alla mostra collettiva di Pistoia Ir/Realtà Soggettiva a cura di Tommaso Paloscia, mentre nel 1983 partecipa con la galleria Vallardi di La Spezia alla Expo Arte di Bari (dove una sua opera sarà acquistata dalla Pinacoteca cittadina). Altre due personali saranno allestite quell'anno alla Syracuse University di Firenze e alla Vecchia Farmacia di Forte dei Marmi: qui Cacciarini, come nota Tommaso Paloscia ne «La Nazione» del 24 agosto, "gioca con un manichino di tipo annigoniano", ma sceglie di mutare l'impostazione scenica del maestro, ribaltando i piani di luce e ponendo sul proscenio la luminosità viva e bianca, mentre l'immagine del manichino si distende nell'ombra sempre più fitta che consuma via il visibile.

Gli appuntamenti più significativi del 1985, oltre alla collettiva Natura morta presso la Galleria L'indiano di Firenze, sono le mostre personali al Collegio Reale di Spagna di Bologna - con la pubblicazione di una monografia di José Guillermo Valdecasas e Michele Greco - e quella allestite alla Galleria Il Segno Contemporaneo di Brescia, e alla Galleria Pananti di Firenze. Nel catalogo di quest'ultima Pier Carlo Santini (che inviterà poi Cacciarini alla mostra Continuità di un'esperienza nell'ambito della IX Rassegna Nazionale della città di Pistoia), ribadisce l'importanza della 'progettazione architettonica' nei dipinti del Nostro, cioè di quella fase sperimentale in cui l'artista pone e ridispone, toglie, aggiunge e sostituisce oggetti sul tavolo, studiandone attentamente l'interdipendenza, i rapporti di forma e colore, e l'incidere della luce non già artificiale, bensì naturale, sia pure da nord, e dunque mutevole per quantità e tono. Questa scelta di luce lo allontana, secondo Santini, dalla metafisica e dall'iperrealismo, poiché nelle tempere di Cacciarini gli oggetti "non si enfatizzano come presenze mitiche". Nello spazio indefinito in cui sono calate le macchine da scrivere, i manometri, v'è sempre un piccolo richiamo alla quotidianeità domestica - la tazzina da caffè, un bicchiere colmo di vino o un cestino di limoni - a render quelle atmosfere, sempre meno avvolte dallo sfumato, "temi e tratti riconoscibili nel paesaggio della memoria". Ed al rigore con cui, sulla via indicata da Annigoni, Cacciarini aveva riproposto un ritorno alla pittura fondato sul recupero della maestria tecnica", egli fa seguire una condizione emotiva ma non effusiva con ampi margini per trasognati incantamenti". Tra i dipinti esposti quell'anno appare inoltre, quasi fusa nelle nature morte stesse, la figura. Un'esperienza fino ad allora mai tentata, forse anche perché, al tempo in cui Cacciarini aveva frequentato lo studio d'Annigoni, l'anziano maestro non dipingeva più dal modello, ma solo a memoria per i grandi cicli di affreschi. Tuttavia Gianni terrà presente gli insegnamenti appresi per gli oggetti ("In fondo, egli dice, il discorso non cambia poi molto"), desideroso di misurarsi con qualcosa che, pur incutendogli un certo timore, lo attrae in maniera profonda. Tratterà invece nei dipinti una sola volta il paesaggio, preferendo "reinventarlo" nelle incisioni perche, come nel cinema in bianco e nero, così nella grafica, il paesaggio assume un'altra dimensione, fuori dalla realtà, che ancor oggi più lo ispira.

Ma nel 1985 Cacciarini si dedica con passione anche ad un'altra "opera": la ristrutturazione, insieme a Daniele Cariani, delle sale al piano terreno di palazzo Visacci-Guicciardini (l'ufficio-officina di suo padre e di suo nonno), in cui trasferisce lo studio, ed anche l'abitazione, prima in via della Pergola. L'atelier di Borgo degli Albizi è luogo di grandissimo fascino, poiché la bellezza degli spazi, con gli affreschi settecenteschi (le prospettive e le rovine classiche dipinte da Andrea Landini e le figure di Giovanni Cinqui), è esaltata dalle scelte raffinatissime, e talvolta ardite, degli arredi: l'insieme appare notturno e teatrale, palpitante di ombre e luccichii metallici, ma nello stesso tempo intimo e disarmato, come nei dipinti di Cacciarini, dove architetture di oggetti attendono l'appassionato srotolarsi di un nastro di seta. In quelle stanze vivono poltroncine in vimini anni Trenta e sdraie tra piante rigogliose, mobili dell'Ottocento, decò, o disegnati da Cariani, un busto del Granduca Ferdinando III de' Medici, e tante piccole sculture e bozzetti in gesso, sparsi ovunque tra i vasi di fiori ed altri oggetti insoliti, o disposti, secondo l'allestimento di Cariani, lungo la scala a chiocciola secentesca di pietra serena. Nello studio, in cui si penetra dopo aver attraversato il soggiorno illuminato dalla grande finestra semicircolare, sono raccolti, in parte racchiusi in grandi vetrine, gli "oggetti di desiderio", quelli che animano la sua pittura: alcune macchine non hanno forse mai lasciato quei luoghi, altre vi sono state portate, o riportate dallo studio di via della Pergola, altre vi si aggiungeranno, ora che uno spazio più ampio può accoglierle. Tra tutte, un antico torchio giace ancora immobile - ma Cacciarini vuol farlo di nuovo lavorare - accanto all'acciaio fulvo di vecchie caldaie. Quel salone non è solo il luogo di ritiro del pittore, ma uno spazio pienamente vissuto ove la sospensione degli altri ambienti si addensa sugli strumenti dl lavoro di Gianni. Insieme ai cavalletti, alle tempere, alle lastre per l'incisione, troviamo anche un proiettore e uno schermo. Cacciarini colleziona infatti, da anni, pellicole cinematografiche, dando così libero sfogo ad una passione di lunghissima data. Nel cinema - che è stato, fin da bambino, un "richiamo totale, quasi una fissazione maniacale, forse per questo perfino contrastata dai familiari" - trova spunti e conferme per le atmosfere dei suoi quadri, "purché vi siano il culto dell'inquadratura e della composizione, ancora vivi ad esempio in Visconti, ma quasi dimenticati dopo il Sessanta". Nella sua ricca e varia collezione figurano, tra l'altro molti film americani, in particolare di gangsters degli anni Quaranta e Cinquanta, da cui deriva, in parte, l'amore per le macchine, ma anche numerosi di fantascienza, fino a Blade Runner. E poi i grandi classici, da vedere e rivedere, specie quelli con uno dei suoi miti: Ava Gardner. L'attrazione per il linguaggio cinematografico ("ciò che forse mi sarebbe piaciuto portare avanti se non fossi divenuto pittore") lo induce a sperimentare due cortometraggi con oggetti che si animano. Una medesima passione - che traspare del resto in alcuni suoi dipinti, specie nei più recenti - prova egli per il teatro e per l'opera; cura infatti alcuni progetti scenici, come quello, nel 1988, per la commedia settecentesca di Giovan Battista Andreini, scritta per la corte di Francia e messa in scena al castello di Ischia.

Nel 1986, oltre alle rassegne collettive (Conservatorio di San Michele a Pescia, Galleria L'Incontro d'Arte a Roma, La presenza, l'oggetto, la luce alla Galleria Vallardi di La Spezia) si annotano, per la pittura, le mostre all'Arco '86 di Madrid (con la Galleria Michaud di Firenze) e all'Arte Fiera di Bologna (con la Galleria Alain Blondel di Parigi); infine la prima Biennale Internazionale della Grafica Tono Zancanaro di Vico d'Elsa.

L'anno seguente il nostro espone nuovamente alla galleria l'Incontro di Roma, con la presentazione di Dario Micacchi. Ne La pittura del tempo di Gianni Cacciarini Micacchi, evocando i precedenti illustri- le ceste di Caravaggio, il pane imperlato di brina di Vermeer, i frutti di Zurbaran, o i vasi di Morandi, ma anche Baschenis, Munari o, per il tono, Alberto Ziveri - osserva come Cacciarini sia giunto a rendere "tanto straordinaria la materia dei suoi oggetti" da attirare il nostro sguardo verso ed entro la "misteriosa cittadella" in cui essi vivono, "scalzati dal tempo presente", "archeologia industriale in un'era di produzione tecnologia". Nella luce, soprattutto, Cacciarini sembra trovare "l'elemento unificante nell'avventuroso viaggio del banale quotidiano e archeologico al senso umano del tempo e della durata delle cose nel tempo lungo"; la luce, infatti, per divenire metafora della durabilità assume ora un'intensità costante, cacciando le ombre che si addensavano negli sfondi cupi, e rendendo "tutto 'tattile', anche i pensieri e i sentimenti più misteriosi". Così gli oggetti, esaltati come pietre dure, appaiono a Micacchi "scandagli del tempo" che si oppongono alla velocità con la quale sono consumate, nei decenni presenti, cultura ed arte e "ci rendon consapevoli di un tempo altro della vita e dell'immaginazione", recando forse, "il seme di una liberazione". Sempre nel 1987 Gianni espone da Pananti a Firenze e al Castello di Mesola nella mostra La natura morta nell'arte italiana, curata da Vittorio Sgarbi e Laura Gavioli. Questi, nel volume Natura morta contemporanea, edito nel 1988, inserisce i dipinti di Gianni tra gli esempi di "pittura colta", evidenziandone, pur nella scelta del "repertorio tecnologico un po' antiquato, con il sapore dei primi del secolo, in accordo con le sue origini fiorentine", "il taglio dell'immagine sempre rigoroso, geometrizzante, come se, in tralice, le composizioni, mutati gli oggetti, riproducessero il ritmo morandiano".

Nel 1988 Cacciarini, che non ha abbandonato l'incisione, espone alla Biennale della Grafica della Pinacoteca Alberto Martini di Oderzo (dove tornerà anche nel 1990), all'Istituto Italiano di Cultura di Vienna e alla Galleria L'Incontro di Ancona, insieme a Bodini, Cazzaniga, Piacesi, Stelluti e Trubbiani, in occasione dell'edizione di una cartella di sei acqueforti. Per la pittura Gianni partecipa invece all'Expo di Bari e alle collettive della Galleria L'Incontro Arte di Roma, e a quella intitolata Pittura e immagine dell'uomo all'Accademia delle Arti del Disegno di Firenze dove espone una delle sue ultime opere, l'Autoritratto con distillatore; presenta inoltre alla Galleria Humus di Firenze, un dipinto di grandi dimensioni, Macchine amiche - in cui ritroviamo il panno rosso, di pontormesca memoria.

Proprio all'inizio del 1989 la Galleria Pananti di Firenze dedica a Cacciarini una mostra retrospettiva delle sue incisioni, da quelle ormai "storiche" del 1973 fino al 1988. Nel saggio introduttivo al catalogo (poi ripubblicato nella rivista «Artista» dello stesso anno). Carlo Sisi riflette sugli ultimi mutamenti avvenuti nella pittura di Cacciarini, di cui l'opera grafica è stata, in un certo senso, "la logica preistoria". Nell'introdurre ora, accanto alle macchine celibi, la figura, in particolare sotto forma di autoritratto, Gianni pare sciogliere l'enigma della "pregnante oggettività" delle sue nature morte, laddove la composizione degli oggetti sul piano di posa era già "scrittura ermetica d'una biografia appassionata, cedevole spesso al pudore dei sentimenti, ma percorsa da una vena di calda sensualità". E, se in quegli oggetti rari, scelti per le loro forme seducenti - ma "anche per la disponibilità a divenire traslati simboli" - si avverte "palpabile la trasfusione dell'anima poetica nella minerale sostanza di reperti estratti dal deposito del sogno e di un personalissimo 'bello ideale'", nell'autoritratto Sisi vede esplicita "la palese confessione di un narcisismo sofferto e fecondo, prima solo consegnato alla dialettica segreta dei suoi oggetti-parola". Così, nelle incisioni, fin dalle Viti, traspare, nella solida intelaiatura e nella messa a fuoco delle variate superfici, "l'intima vita che imparenta quei frammenti di natura all'anima e alle vicende dell'artista"; e similmente, ma ampliandosi l'orizzonte prospettico, avviene nelle Fabbriche che divengono "espressioni momunentali del sentimento del tempo, organismi fecondi e matrici di una storia da riscrivere di uno spazio da ricostruire": Sisi non percepisce pessimismo in esse, ma "sospensione e attesa di una visitazione (angelica?) capace di infondere nuova bellezza all'identità perduta". Una bellezza che "Cacciarini individua nei ritagli di realtà che si impongono al suo occhio selettivo e che al pari degli oggetti dipinti, compongono un diario di esperienze vissute, "sempre in cerca di corrispondenze liriche ed estetiche". Infine, la poesia urbana espressa nelle incisioni degli anni più recenti, "fatta di cesure ritmiche di dettagli inaspettati (il disegno dell'inferriata o del cancello, la pelle variegata d'un vecchio muro, il pulsante d'un campanello ottocentesco)", "di brani più sfogati o metri solenni", e la cui "gamma cristallina prevede, in definitiva, le emozioni e i soprassalti dell'immaginazione letteraria, la ricerca pertinace delle forme belle ed eloquenti", evocherà a Sisi un confronto con "la 'realtà di laboratorio' ricreata da certa poesia dopo gli esperimenti di terra ( e parola) bruciata dall'avanguardia". Nei versi di Silvio Ramat si ritrova infatti la stessa lente con cui il pittore, "a specchio del corpo e dell'anima, indaga gli interstizi del mondo circostante come se stesse contando ad una ad una le proprie vene".

Ancora nel 1989 Cacciarini espone i suoi dipinti alla Galleria Cobra di Parigi, alla Galleria Spagnoli a Lugano, a Incontro d'Arte a Roma, e a Firenze, nell'ambite del Salone Internazionale d'Arte; partecipa inoltre alla collettiva In perfetto disordine della Galleria L'Incontro di Ancona. Lì torna anche nel 1990 in due diverse occasioni: la collettiva Immaginazione poetica ed una personale. Nell'introduzione al catalogo di quest'ultima, Franco Simongini analizza le ragioni di un medium come la tempera grassa, scelta da Cacciarini non solo per la libertà che offre di spaziare dall'acquerello alla pittura di materia, con velature talvolta impercettibili che mutano i toni dei colori stessi, ma anche per le possibilità psicologiche, conformi alla sua indole, portata a ricreare per gradi gerte sensazioni, come, per gradi, se ne è presa coscienza. Così anche la luce dei quadri è una luce è una luce mentale che sembra fredda, anzi "gelida nel suo nitore allucinato", ma che "se la guardi con la stessa pazienza calcolata con cui l'artista l'ha creata, senti sull'istante di entrare in una nuova dimensione della realtà, l'aria pulita di un paesaggio che può apparire 'inespressivo', che nasce dalla lenta emozione di salvare un mondo di ordine e chiarezza". Di quell'anno sono inoltre la personale di Buti (Imago delle mie brame) e la collettiva ai Bottini dell'Olio (Livorno), Il reale, l'essenziale, l'ironico.

Nel 1991 le opere di Cacciarini saranno presentate dalla Galleria Marijeke Raaijmakers a Venlo e all'Arte Fiera di Maastricht, ed egli parteciperà alla mostra di Mesola Il ritratto nel Novecento curata da Laura Gravioli e Vittorio Sgarbi, con Il ritratto di Jonathan Turner, critico di fama internazionale. In dicembre le incisioni di Gianni figurano alla Galleria La Soffitta e, durante l'inaugurazione, è presentato un film sulla sua pittura: Le meraviglie del quotidiano di Massimo Becattini con testo di Pier Francesco Listri. L'anno seguente espone a Roma (Galleria Incontro d'arte), al Centro culturale Paggeria di Sassuolo e a Bari presso la Galleria Esposito.

Del 1993, oltre alla personale di pittura presso la Galleria Realisten de l'Aja, si ricorda la mostra di incisioni nuovamente da Pananti a Firenze (e poi a Fabriano), insieme a quelle di Roberto Stelluti. Artisti definiti entrambi, nella presentazione di Gabriele Simongini, "eccentrici", e tesi alla "difficile conquista di una bellezza appartata, sia nei temi che nella perfezione tecnica, vibrante di risonanze profonde", così diverse e lontane dalla banalità di immagini 'pseudomoderne". Simongini nota inoltre che, se l'arte di Cacciarini appare legata, per certi aspetti, al "silenzio dell'abbandono", la sua ricerca incisoria è soprattutto incentrata "su valori formali e compositivi complessivamente autonomi dai soggetti rappresentati". Egli sembra cercare una "metafisica del segno" nel tratto che già per sè possiede "una qualità astrattiva nei confronti della realtà visibile" e dove "le inesauribili variazioni di ritmo dei reticoli e dei segni e le infinite tonalita di grigi sono 'costruzioni' che nascono da un rapporto quasi fisiologico, oltre che mentale con la linea incisa": "per lui la tecnica è una fonte di ispirazione che potenzia la creatività" e nell'hortus conclusus della lastra, inseguendo le avventure della linea, Cacciarini edifica "un mondo parallelo a quello visibile e innervato da strutture nuove". Nello stesso anno l'iter artistico di Gianni è esaminato anche da Giovanna Uzzani ne La pittura in Italia. IL Novecento (II, Milano, Electa), ove si annota come, nelle tavole più recenti, egli si agiunto ad isolare "una forma muta, avvolta di luce acida, in sfondi dai colori aqgressivi e antinaturalistici, evitando così gli equivoci dell'intimismo e giungendo ad una nuova astratta monumentalità".

Dieci tra i più recenti dipinti del nostro sono stati esposti all'inizio del 1994 da Giulio Residori allo Spazio Ergy di Milano, accompapnati da una breve monografia dal titolo Oggetti del desiderio nella quale, oltre all'introduzione di Residori, lo stesso Cacciarini spiega - con parole ed argomenti già ricordati sopra - l'origine dell'attrazione per gli "immoti protagonisti della sua pittura". Ma se nella mostra di Milano figurano soprattutto i dipinti con le immancabili macchine da scrivere(che perfino Uwe Breker - il più grande collezionista del mondo di quello strumento - ed anche la Olivetti gli commissionarono), le lampade elioterapiche, le macchine da caffè, gli scaldabagni, gli spruzzatori in rame accanto a cestine di frutta o le lampade a petrolio intorno a cui s'avvolgono nastri rossi, Cacciarini si dedica molto, in questi tempi, alla figura, ispirato da quella "eccitazione visiva, tattile" che certi grandi del passato, come Pontormo, Rosso, ma anche Velasquez gli suscitano: lo anima la volontà di cambiare sempre "perché se una cosa mi viene a noia è orribile, non c'è più l'interesse della scoperta".

Negli ultimi anni, dal 1991, Gianni, al di fuori dei viaggi all'estero, divide il suo tempo tra Firenze e Lattaia, in Maremma, dove con Daniele Cariani ha sistemato una casa che fa parte di un piccolissimo borgo, "tra boschi e bovi" (il titolo della 'stagione' estiva di mostre e rassegne cinematografiche che i due artisti organizzano). Infatti, dal grande prato orlato da un percorso di rose, si accede ai porcili che offrono, negli stalletti, gli spazi espositivi per fotografie, sculture o pitture (quest'anno le fotografie degli anni Trenta di Felice Andreis e una collettiva di opere contemporanee: Sculture di animali, disseminate anche sul prato). Poi, attraverso una breccia del muro si apre un ambiente basso, quasi una grotta con un gesso di Diana cacciatrice, dove inizia la casa anch'essa pensata come un percorso. Una ripida scala conduce ai piani superiori, dove poltrone e divani sono ricoperti di teli bianchi, e i trionfi di bucrani e pigne sui caminetti, il lampadario di fiori di carta, gli oggetti e i molti dipinti alle pareti, danno un impressione di folta e incessante crescita, come la vegetazione che, dietro la cucina, rigogliosa e potente avvolge senza regola i pali, sale sul muro lasciato sbrecciato, quasi un rudere. Tutto si anima poi negli smalti accesi, lampone e smeraldo, che sottolineano certi ambienti: battiscopa, fregi, pareti intere che illuminano gli oggetti come i nastri di seta lucida nei dipinti di Cacciarini.

A Lattaia Gianni, almeno per ora, non ha mai dipinto: il tempo gli è mancato, ma forse, anche in un futuro gli sarà difficile comporre lontano da Firenze, città a cui è legato da sentimenti contraddittori, ma che molto gli dà sul piano dei rapporti umani, e le atmosfere di quegli scambi portano linfa alla sua pittura. Spesso descritto come un uomo "schivo e aristocratico" Cacciarini, con grande generosità ed entusiasmo, ama invece render partecipi delle sue passioni - come quella del cinema - i molti amici, ma anche i visitatori occasionali che, nelle notti estive sono accolti sul prato di Lattaia. Lì, sul grande schermo, si proiettano, a tema, cult-movies alternati ad altre pellicole insolite.

E siamo così all'oggi; con l'autunno del 1994 un altro ciclo di film si è concluso, e Gianni è tornato a Firenze, tra lo studio che fu di Annigoni, dove la mattina la luce da nord rende appassionante disporre gli oggetti sul tavolo di posa, e le stanze di palazzo Visacci, colme di memoria, ove la fantasia palpita nell'ombra.

Presentazione della Personale alla Galleria L'Incontro - Firenze

Franco Simongini - 1990

L'uomo e il pittore Gianni Cacciarini si riflettono, pet intero, nel suo arcano studio-abitazione, a Firenze, a Borgo degli Albizi, in un palazzo storico seicentesco (il Palazzo dei Visacci) affrescato alle pareti, ravvivato da grandi esotiche piante, e soprattutto in quell'affollarsi tipico di atelier, un gigantesco scaffale pieno zeppo (e scenograficamente piacevole) di macchine da scrivere di vecchio tipo, macchine da caffè (una volta aereo dinamiche ), bruciatori, ventilatori, frullatori, lampade, eccetera, tutto un armamentario di utensili (c'è persino una polverosa poltrona da dentista con poggiatesta), immerso nella patina leggera del tempo che li allontana da noi facendoli rinascere splendenti nella memoria. Semplicità, decoro nei mobili, fantasia, un tocco di nostalgia, tranquillità in penombra: l'arte per Cacciarini è una cosa semplice, naturale, come la sua vita, comeil luogo dove abita e lavora, la pittura, per lui, deve avere un linguaggio tutto suo, un alfabeto particolare che si legge a prima vista. Occorre però chiarire la preferenza di Cacciarini per certi strumenti tecnologici o scientifici: li predilige, per la loro struttura ben definita, per la perfetta coesione di forma e funzione. Ma c'è anche un altro aspetto più emotivo che lo spinge verso il recupero e la rivalutazione, con la pittura, di oggetti che la nuova tecnologia ha reso inservibili. Alloro apparire questi oggetti, strumenti o utensili che dir si voglia, «si presentavano alla ribalta - dice Cacciarini - come campioni di nuove civiltà e del progresso, addirittura portabandiera di filosofie avanzate. Oggi, invecchiati e sopravvissuti, si pongono ai miei occhi alla stregua di vecchi edifici abbandonati, da guardare con tenerezza e amore, come per ripagarli di una promessa di immortalità fatta loro e non mantenuta».

Studiarli, amarli, comporli tra di loro, per Cacciarini, è come farli rivivere, nobilitarli, ridar loro quella identità che la civiltà dell'effimero aveva rapidamente sostituito. La tecnica che usa Cacciarini per i suoi quadri è la tempera grassa, una sorta di connubio tra la tempera pura e la pittura a olio, e secondo il pittore, questa tecnica raccoglie in sè le caratteristiche positive delle altre due, con il vantaggio di usare l'acqua come medium.

Mi sembra interessante il racconto che Cacciarini fa del suo impatto con la Pittura e, soprattutto, con un Maestro della tecnica (e su questo speriamo non ci siano dubbi) come Pietro Annigoni. «Quando andai allo studio di Annigoni - confessa Cacciarini - il Maestro, esaminando i lavori di incisione che avevo fatto fino ad allora, ed i disegni che gli mostravo, mi consigliò di cominciare con la tempera grassa poichè il modo di avvicinarsi alla ricerca visiva, era più graduato e mediato e consentiva di partire da una "non definizione" dell'oggetto, quasi un'astrazione, per arrivare, poi, alle raffinatezze veristiche più spinte. La scelta del punto in cui fermarsi rimaneva a me». C'era poi un altro fattore, per Cacciarini. Il doversi fare i colori con le proprie mani, era già un modo per vincere la sua timidezza, data dall'inesperienza e dalla assoluta sua certezza (pensate un pò) di non avere alcuna sensibilità di colore. Il manipolare le paste colorate, le polveri, le varie gradazioni tra pigmento ed emulsione, trasportarono immediatamente Cacciarini in quel mondo della pittura che fino a quel momento gli era parso un vero e proprio tabù. Cacciarini, invece, si sentiva digiuno di tutto, autodidatta, ma anche architetto, arredatore, con un mondo ben strutturato e ordinato, metafisico, razionale, davanti ai suoi occhi, e non avrebbe mai immaginato di diventare un pittore di professione, un alchimista del colore, e suona davvero sincera questa confessione di amore per la tecnica (mentre oggi i suoi colleghi parlano attraverso grandi ideologie, grandi parole, intenzioni, concetti): «La tempera grassa si può usare in modo assolutamente libero - dice Cacciarini - spaziando dall'acquarello alla pittura di materia: le velature che la tempera permette possono essere impercettibili, o addirittura possono permettere di cambiare i toni di colore già stesi sulla tavola. Anche in questo caso il colore a cui voglio arrivare non è dato dall'impasto ma dalle combinazioni di impasto e velatura su di esso».

C'è anche una motivazione sottilmente psicologica che spinge Cacciarini a fare i colori con le proprie mani: se ha un momento di crisi di invenzione, se ha più dubbi del solito sulla sua ricerca, gli basta un nonnulla per riacquistare un pò di fiducia, e cioè mettersi all' opera con le polveri, le bilance, i misurini. «A quel punto il coraggio ritorna proprio per la fisicità dell'esperienza che ho avuto». C'è ancora un altro motivo per cui Cacciarini predilige questa tempera grassa: è perchè questa tecnica si adatta perfettamente alla sua indole, al suo carattere, che non è aggressivo e che sa aspettare prima di manifestarsi completamente. Cacciarini arriva per gradi a prendere coscienza dell' oggetto, della persona, e per gradi deve ricreare questa sensazione, per gradi deve impossessarsi della realtà attraverso il mezzo della pittura. Il fatto che Cacciarini nasca come incisore non è casuale;anche l'incisione, come lui la pratica con alto magistero, non è altro che una ricostruzione della realtà attraverso una miriade di segni, che pazientemente si sommano fino a ri-formare l'oggetto preso in esame.

Tutto il lavoro, sia dal punto di vista formale che contenutistico è il frutto di una riflessione e di un calcolo che avviene molto prima dell' esecuzione pratica. Il pittore ci ha detto perchè sceglie certi oggetti, come li dipinge tecnicamente; li dispone e li assembla come fossero monumenti, case, architetture di una città ideale, città dell' anima (una città sottotono, sommessa, non appariscente, preziosa, appunto secondo il carattere del pittore), dove l'irrealtà o l'immortalità dell'oggetto viene data dalla cosa più impalpabile, più segreta, più misteriosa della vera pittura, la luce. La luce crea la motivazione, la nostalgia, la consistenza di questi oggetti: una luce mentale che sembra fredda (ed è infatti gelida nel suo nitore allucinato) ma che invece se la guardi attentamente, con la stessa pazienza calcolata con cui l'artista l'ha creata, senti sull'istante di entrare in una nuova dimensione della realtà, l'aria pulita e chiara di un paesaggio che in apparenza può apparire "inespressivo", che nasce dalla lenta emozione di isolare e salvare un "mondo di ordine e chiarezza" che certamente non esiste nella nostra caotica e nevrotica realtà.

Una luce che accarezza, vela, alita intorno agli oggetti e nel caso di questi tostapane d'acciaio rilucente, la luce viene captata, assorbita e respinta, a schiarire il fondo con un raggio di sole che batte sulla pozzanghera, nel paesaggio mattutino, tra le nebbie della notte che si dissolvono, rischiarando d'un fiato secco e lucido l'ambiente circostante: in fondo è una luce ottimista, d'una condizione di vita immobile e felice di essere che emana una sua luce interiore e abbaglia e rasserena, e blocca in un lampo di metafisica solitudine.

La luce nei quadri di Cacciarini non gioca mai a rimpiattino, non piove dall'alto e si frantuma o si scheggia in bagliori: si espande, avvolge, fascia, le cose in un bagno di tranquillo e rasserenante lucore aurorale, mai annebbiata e offuscata, è una luce di cime alpine, come il riflesso delle nevi (qui accoppiato alla riflessione metallica abbagliante dell'oggetto raffigurato che da il là a tutta la costruzione atmosferica del quadro). Certo Cacciarini è un pittore colto ha visto tra i tanti anche Morandi, Chardin, la pop-art, ma egli non offre nostalgia, assoluto della pittura, realismo di povere cose o polemica consumistica o esaltazione cartellonistica, il suo correlativo oggettivo dipinto esprime benissimo la sua capacità solare di essere timido e gentile, meditativo e cauto, c'è una sorta di understatement nel suo mondo poetico, che va capito con umiltà evitando il colpo d'occhio o lo sguardo superficiale. E così le persone fisiche, le figure umane, così rare nei suoi quadri: evidentemente quel dato di timidezza orgoglio e riserbo, tipicamente fiorentino, quella vitalità che lui stesso confessa di svelare lentamente, lo indugia e frena a raffigurare la persona umana a tentar di sfiorare l'intimità psicologica altrui (a parte gli autoritratti, impostati con spietata analisi), e proprio questo riserbo psicologico può suggerire un senso di distacco e freddezza.

Solo con le persone di lunga frequentazione, raffigurandole, può Cacciarini esprimere tutta la discrezione e rispetto per una buona pittura, eseguita con tutti i crismi del mestiere. Aggiungendovi di sua, come dicevamo, una idillica, abbagliata poesia, oggetti che sono ormai totem dell'essenza d'ogni disfacimento, emblemi d'una saggezza antica.

IX Rassegna d'Arte "Città di Buti"

Nicola Micieli - 1990

Imago delle mie brame


Con questa nona edizione, la rassegna d'arte «Città di Buti» sperimenta una formula parzialmente nuova, che dovrebbe aprire un secondo ciclo di mostre, a periscopio non più regionale ma nazionale. Rimangono cinque gli artisti espositori, quattro pittori e uno scultore. Per quest'anno sono ancora nomi toscani, ben noti e di sicura probità artistica: ma si propone un diverso ordinamento introducendo un principio di appartenenza a una definita - che non vuoi certo dire monovalente - area linguistica, e un'indicazione tematica riassunta nel titolo.

Nelle precedenti edizioni era stato utilizzato il criterio documentario, impostando le mostre sulla compresenza di esperienze e stili anche antipolari che sintetizzano, attraverso un cospicuo ventaglio di esempi, una situazione toscana rapporta bile al polistilismo del più ampio contesto italiano. È ora possibile approfondire il discorso aggregando personalità compatibili, delle quali, peraltro, rimane rigorosamente delineata l'individualità (o identità, che è termine più pertinente, per quanto oggi inviso agli «operatori» del consumo culturale), onde sottolineare peculiarità e differenze sul piano delle risposte individuali a una comune problematica, affrontata con strumenti espressivi sostanzialmente analoghi.

Come esordio, è parso interessante soffermarsi sull'immagine. Anzi: l'imago, per significare, anche attraverso la semplice suggestione fonetica del nome, non solo un modo della rappresentazione, ma un luogo evocativo, la «figura» di un moto dell'animo, un desiderio, una nostalgia, un mezzo della conoscenza poetica della realtà.

lmago delle mie brame rimanda allo specchio della favola, che è schermo rivelatore. Il tema implica un rapporto con la forma della pittura come simulacro, dietro cui si cela l'essere , con le sue implicazioni. Esso comporta, pertanto, il gioco sempre liminare tra dominio mentale e coinvolgimento affettivo, tra l'intenzionale oggettivazione formale e figurale di un'idea, che si connette al mondo quotidiano, e l'involontario disvelamento di un universo interiore che appare sotto specie di metafora. Indica, inoltre, la riflessione critica o la risposta analogica alla situazione contemporanea della pittura d'immagine; e dell'immagine come oggetto anche filologico della pittura (o scultura che dir si voglia), luogo della citazione iconografica e dell' evocazione mitografica.

Testimonianza, infine, di una passione, reliquia o feticcio che è traccia animistica del vissuto, su cui si esercita un immaginario che all'universo ipertecnologico ormai dominante contrappone, sul piano della proiezione personale, una visione del mondo semplificata sino a una sorta di magica riduzione al primario, in cui è da vedersi un estremo residuale spazio di identità.

Gli artisti che propongo in lmago delle mie brame occupano, ciascuno a proprio modo (intendo dire con personale flessione stilistica), un versante dell'area d'immagine dianzi sommariamente delineata. Sono portatori di esperienze maturate per lunga applicazione, attendendo alle ragioni intrinseche della pittura e della scultura piuttosto che a quelle mondane e mercantili, ed è questo un denominatore comune che mi preme sottolineare. Dal sintetismo plastico dello scultore Adriano Bimbi, che all'immagine affida il compito di parlare dell'uomo nell' essenza degli atti e dei gesti che ne identificano la presenza corporale, all'iperfiguratività di Gianfranco Pogni, il cui sguardo analitico rivisita icone e reperti celebri non meno che tal uni emblematici «graffiti» metropolitani; dalla durata emozionale e poetica, prima che visiva, dello sguardo che Cacciarini posa sugli oggetti suoi d'affezione, composti come cattedrali sulla nudità d'un piano, alla durata memoriale e mitopoietica dello sguardo con cui Danilo Fusi osserva, dietro il velario delle apparenze sensibili, il mistero di una natura che si manifesta nella varietà dei fenomeni e delle creature; sino alla navigazione metaforica di Romano Masoni tra pancali e cippi di conceria come relitti  dell'umano naufragio, laiche reliquie che hanno la sacralità degli ex-voto: la mostra propone questo ventaglio di risoluzioni del'tema figurale, ed è un campione soltanto delle innumerevoli possibilità di declinazione.

Un campione significativo che depone non solo per la legittimità dell'uso creativo ed espressivo, in termini critici e poetici, della pittura e della scultura che si pongono in un rapporto di continuità - evidentemente non pedestre - con la tradizione, ma per la loro capacità di rappresentare aspetti centrali della sensibilità e della problematica del nostro tempo mantenendo un vivo senso di autenticità culturale e umana.